BERLINO – Con gli immancabili occhiali scuri, Wong Kar Wai fa addirittura una doppia apparizione nella giornata inaugurale del festival di Berlino, prima come presidente della giuria e poco dopo come autore dello spettacolare film d’apertura The Grandmaster, un’opera che mescola romanticismo e arti marziali, straordinarie coreografie (opera di Yuen Woo-ping, che ha lavorato anche in The Matrix e Crouching Tiger, Hidden Dragon) e spunti filosofici, bellissime immagini, anche se a rischio di formalismo, e intensa, struggente malinconia, tipica cifra del suo cinema. In Cina è già uscito (l’8 gennaio) e ha incassato circa 45 milioni di dollari facendo dimenticare l’insuccesso della sua unica produzione in lingua inglese, l’ambizioso Un bacio romantico My blueberry nights con Norah Jones, che data al 2007. Questo nuovo film, a Berlino fuori concorso, in due ore piene (ma la versione internazionale è tagliata di 13 minuti e un primo montaggio arrivava addirittura a 240′), racconta l’incontro-scontro fisico e mentale tra Ip Man (Tony Leung Chiu-wai) e Gong Er (Zhang Ziyi). Entrambi dotati di grande maestria nel kung fu, entrambi disperatamente segnati dalla vita: lui ha perduto due figlie durante l’occupazione giapponese e si è dovuto separare dall’amata moglie, lei ha rinunciato alle nozze per poter vendicare il padre, saggio maestro ucciso da un allievo traditore, che si è venduto agli invasori ed è diventato ministro del governo fantoccio voluto dall’impero nipponico. La giovane donna, che non osa confessare il suo amore, si ridurrà sfinita dall’oppio, mentre Ip Man prosegue la tradizione fondando una nuova scuola tra i cui allievi c’è il leggendario Bruce Lee. Il cardine del suo insegnamento è un semplice principio: “Nel kung fu ci sono solo due parole, orizzontale e verticale. Se ti rialzi hai vinto, se rimani a terra hai perso”.
In realtà, come spiega Wong, “il kung fu, che non conoscevo, e che mi ha sorpreso per l’umiltà dei suoi maestri, è qualcosa di più di uno sport. Innanzitutto perché è un’arma che può anche uccidere. Chi lo padroneggia sa di poter togliere la vita con le sole mani e dunque sa anche che la disciplina è molto importante. Per questo coltiva la modestia”. Al progetto il cineasta hongkonghese di In the mood for love pensa in qualche modo dal 1999, da quando vide un documentario sul maestro di Bruce Lee, girato 3 giorni prima della sua morte. “Mi ha impressionato vedere quest’uomo molto malato, ultra70enne, che faceva una lunga dimostrazione di kung fu e si fermava perché non era più in grado di continuare. È l’unico filmato d’archivio su di lui”. Calarsi in Ip Man per Tony Leung – attore feticcio di Wong Kar wai – dev’essere stato un lavoro pazzesco e non solo perché ha dovuto apprendere a combattere a quasi 50 anni d’età: “Non sapevo nulla di quest’arte, l’ho studiata per 4 anni e solo alla fine ho capito che oltre ad essere una tecnica di lotta è un modo di allenare lo spirito, una filosofia di vita. Questo perché l’aspetto spirituale nel kung fu non si impara sui libri, ma si sviluppa solo con la pratica e quasi spontaneamente”.
Il film utilizza molti splendidi materiali d’archivio sulla Hong Kong degli anni ’40 e ’50, scenario di una vicenda che ripercorre la storia della Cina dal 1936 in avanti con atmosfere che, a tratti, sembrano voler riecheggiare il Sergio Leone di C’era una volta in America, anche grazie alle musiche. Ma questa è Storia del tutto sconosciuta ai più in Occidente e che risulterà ostica al nostro pubblico. “Forse è un po’ difficile per voi, ma non impossibile. In fondo The Grandmaster parla di cose universali come i valori della famiglia e il codice d’onore”, corregge l’autore. Che considera la vita di Ip Man quasi un compendio di storia cinese. “Ha vissuto sotto la dinastia Ching, quindi negli anni della repubblica, della resistenza contro i giapponesi durante la seconda guerra mondiale, dell’esodo verso Hong Kong dopo la guerra civile cinese tra il 1945 e il ’49”.
Un altro dei temi del film è quello della trasmissione della conoscenza e della tecnica da una generazione all’altra. “Un grande maestro deve essere generoso, ha la responsabilità di passare il testimone che lui stesso ha ereditato – dice ancora il regista – Ip Man ha voluto rendere quest’arte più democratica, insegnarla a un’intera scuola anziché a un solo allievo, il suo successore a Bruce Lee l’ha divulgata anche all’estero”. In questo c’è un elemento autobiografico, che riguarda il cinquantacinquenne Wong rispetto ai giovani cineasti? “Non mi considero un maestro, ma credo che il cinema di Hong Kong abbia bisogno di nuove forme di pensiero e di espressione”. E per l’assenza di film cinesi dal concorso della Berlinale non si dice preoccupato. “Il nostro è un cinema molto produttivo e sono certo che ci saranno film cinesi nella prossima edizione della Berlinale o in quella successiva”. Infine, come lavorerà nei prossimi dieci giorni, lui che è già stato presidente della giuria di Cannes? “Questo è un festival intimo, anche a causa delle temperature rigide. Qui è bello incontrarsi per condividere le idee artistiche e penso che la mia giuria dovrà conservare questo tono sommesso, senza ergersi in cattedra a giudicare, ma sottolineando gli aspetti positivi di ogni singolo film”.
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