Il vento di Ken Loach soffia sulla Palma


Vai a fidarti delle giurie. Tutti spergiuravano che Wong Kar-wai, autore raffinato fino all’estenuazione, avrebbe premiato un cinema gemello al suo, e invece la Palma d’oro numero 59 consegna finalmente alla storia del festival Ken Loach, il cineasta più “terreno” e materialista che ci sia. Un regista che ha raccontato, in circa venti film, a cui si aggiungono le molte serie televisive, il proletariato e le sue lotte, i soprusi e le ingiustizie, ma anche gli amori e le speranze. Cannes l’aveva già onorato con due premi della giuria (nel ’90 per Hidden Agenda e nel ’93 per Piovono pietre), ma mai era arrivato al massimo riconoscimento, a sesssant’anni quasi compiuti. Ce l’ha fatta con The Wind that Shakes the Barley che è un apologo sulla rivoluzione con due fratelli che finiscono per diventare avversari nella lotta cruentissima per l’indipendenza dell’Irlanda da un governo britannico crudele e sanguinario oltre ogni immaginazione. “Spero che questo film sia un piccolo passo avanti nel rapporto degli inglesi con il loro passato imperialista – ha detto un emozionatissimo Ken Loach – se osiamo dire la verità sul passato, forse saremo capaci di dire la verità sul presente”.

Mai come quest’anno il palmarès è stato incerto fino all’ultimo. C’era una rosa di buoni film – tutti ricordati in qualche modo stasera, tranne Moretti e Sorrentino – e si sa che la giuria si è riunita di nuovo in extremis, stamattina, per mettere le ultime tessere al loro posto. Hanno pareggiato i conti con Volver, uno dei film più amati del festival, un inno al coraggio e alla fantasia delle donne, ma anche un modo sorridente di ripensare l’ineluttabilità della morte, raddoppiando il premio: alla sceneggiatura e alle straordinarie interpreti che è giusto citare tutte: perché oltre alle famose Penélope Cruz e Carmen Maura, di cui sappiamo qualsiasi cosa, si aggiungono le non meno brave ed emozionanti Lola Dueñas, Chus Lampreave, Yohana Cobo e Blanca Portillo. Pedro non sembrava troppo deluso, anche se è la seconda volta che manca di un soffio la Palma. Era già successo – e fu più grave – quando il suo capolavoro, Tutto su mia madre, vinse il premio per la regia nell’anno del pur bellissimo Rosetta dei Dardenne.
L’altro favorito della vigilia, Alejandro González Iñárritu è stato premiato come regista di Babel e mai premio fu più azzeccato: i suoi film sono perfetti meccanismi di sceneggiatura e regia, fin troppo perfetti dirà qualcuno.
Quindi è toccata ai francesi. L’intero cast (i premi collettivi nel caso dell’interpretazione sono sempre più spesso la norma) di Indigènes dell’algerino Rachid Bouchareb, suona anche come un risarcimento alle ex colonie e agli anonimi uomini del Maghreb che combatterono negli eserciti alleati, mentre Bruno Dumont ha ottenuto il Grand Prix con l’ostico Flandres, ritratto di gioventù insensate nel Nord della Francia e anche lì si parlava di poveracci mandati a combattere allo sbaraglio. L’esordiente regista britannica Andrea Arnold ha avuto il Prix du Jury per Red Road, un film un po’ in stile Dogma con un ruolo femminile molto forte, uno di quei personaggi che restano impressi nella memoria dello spettatore.
Lo stesso si potrebbe dire di Geremia de Geremei, il fetido usuraio di Paolo Sorrentino. I giurati, quasi all’unisono, rimpiangono di non aver avuto abbastanza premi e l’afroamericano Samuel Jackson confessa addirittura che avrebbe voluto per sé quel ruolo, vero trionfo dell’orrido. Un segnale in più che le quotazioni del nostro cinema, spesso in difficoltà all’estero negli ultimi tempi, ha ripreso fiato e credibilità. Intanto Cannes già si prepara alla prossima edizione, quella del sessantesimo, in programma dal 16 al 27 maggio: pare che Gilles Jacob abbia chiesto a gran voce un nuovo Palais perché questo non ce la fa più a contenere il pubblico straripante. Da meditare (specialmente in Italia).

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28 Maggio 2006

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