Esce il 21 marzo – giorno in cui si celebra la giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale – il documentario di Barbet Schroeder Il venerabile W., ideale terzo tassello di una trilogia del male del regista di origine franco-svizzera, iniziata con Imir Adi Dada (1974), sul dittatore dell’Uganda, e proseguita con L’avvocato del terrore (2007) sull’avvocato Jacques Vergès, legale di Klaus Barbie e difensore storico di terroristi.
Al centro dello shockante lavoro, già evento speciale a Cannes 2017, c’è la figura di Ashin Wirathu, maestro buddhista birmano che predica “la protezione della razza e della religione”, esortando i suoi fedeli al massacro del popolo musulmano dei Rohingya. Il regista, candidato al Premio Oscar (Barfly, Il mistero Vol Bulow) indaga su come una filosofia conosciuta come pacifista e tollerante come quella buddhista, da lui stesso praticata, possa arrivare a una tale deriva di violenza e degenerazione dell’animo umano. Fulcro è proprio un’intervista con Wirathu, le cui posizioni fanno riflettere anche più in generale sulla attuale delicata condizione degli equilibri internazionali.
Il film, distribuito in Italia da Satine Film (attualmente in sala con Un valzer tra gli scaffali) ha ottenuto il Patrocinio di Amnesty International, con la seguente motivazione del Portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury: “La domanda, dopo ogni genocidio, crimine contro l’umanità, pulizia etnica, è sempre la stessa: come è potuto accadere? Per quanto riguarda i Rohingya, in questo film c’è la risposta”.
Il tutto risulta anche tristemente attuale, dato l’attacco terribile avvenuto proprio la notte scorsa (14 marzo 2019) in due moschee a ChristChurch, in Nuova Zelanda. “Questo – aggiunge Noury – dimostra quanto siano importanti iniziative di questo tipo, che aiutano ad analizzare il passaggio dalle parole d’odio al crimine d’odio, che poi diventa pulizia etnica, e infine genocidio. I meccanismi sono sempre gli stessi, e stanno dietro ai genocidi come agli atti di terrorismo”.
Come Kim Jong-un, il leader ha la faccia rassicurante di un bambino (in realtà è nato a Mandalay nel ’68), e non è il suo unico elemento carismatico. Quando parla di razza sembra di sentire un esponente dell’Isis. Solo di segno opposto. Indica i musulmani come stupratori e minaccia per l’integrità razziale – sebbene siano solo il 4% della popolazione – sfruttatori di risorse, invasori e nemici da eliminare. Le sue prediche di odio vengono ampiemente diffuse anche attraverso i social media, raggiungendo grandi masse di seguaci – con largo utilizzo della fake news – nonostante Wirathu abbia passato 7 anni in carcere dopo una condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato la morte violenta di 200 mila persone e l’incendio di abitazioni e insediamenti rohingya (chiamati spregiativamente “kalar”, così come l’inviata delle Nazioni Unite Yanghee Lee viene definita “una puttana”).
Liberato nel 2010 grazie a un’amnistia, è considerato sostanzialmente l’equivalente birmano di Bin Laden, immortalato sul ‘Times’ con il titolo ‘Il volto del terrore buddhista’. “Il Buddhismo – dice il regista – è una religione atea, senza un dio, e questo consente il pessimismo. La cosa mi affascina. Buddha è l’unico leader religioso che abbia profetizzato la fine della propria dottrina, indicando che non ne sarebbe rimasto più nulla nell’arco di 5mila anni. Alla fine anche io mi sono dovuto rassegnare all’idea che anche il buddhismo era un’illusione, l’ultima, per me, di una lunga serie, per lo più di natura politica. Ma anche il buddhismo è una religione come le altre, quindi è umana, e quindi può includere il male. L’idea del documentario l’ho avuta molti anni fa, e come sempre volevo raccontare un personaggio controverso ma senza giudicarlo. Volevo parlare di questi temi e volevo che, come in un film di fiction, ci fosse un protagonista, un personaggio principale. Penso che i documentari debbano averne uno”.
Allegato al film c’è un cortometraggio, Che stai facendo, Barbet Schroeder?, che il regista ha voluto appositamente inserire dopo la visione del doc e non prima, “per lasciare al pubblico un momento di decompressione, e che spiega la genesi del sentimento d’odio e anche del film. Mentre ragionavo mi sono imbattuto in uno studio dell’università di Yale che parlava di un genocidio programmato in nome del buddhismo e così mi sono imbattuto nel personaggio di Wirathu”.
E forse aveva ragione. I pacifici monaci, la folla di seguaci, le ragazze adoranti, appaiono nel film come un’orda pronta al massacro, che attaccano nemici, sezionano e bruciano corpi vivi e abbattono un ragazzo a bastonate spinti dagli insegnamenti del venerabile. Schroeder lascia spazio anche alla voce di anziani monaci che ne scomunicano la dottrina sanguinaria. “Dopo oltre sei mesi di ricerche in segreto – continua a raccontare – mi sono stabilito a Mandalay e sono riuscito a incontrare Wirathu dicendogli che Marine Le Pen condivideva molte delle sue idee. Non ero poi così lontano dalla verità, dopotutto. Volevo capire come questo tipo di discorsi potessero influire su persone che di solito predicano parole come pace e armonia. L’odio è come una brace. Dopo aver incubato, basta una scintilla per provocare sommosse in interi quartieri. Alla fine non ho riflettuto soltanto sul buddhismo e sull’Estremo Oriente, ma su tutto il mondo, Occidente compreso, sull’America, sul nazionalismo e il populismo che riguarda anche l’Europa. I processi sono di natura universale e a sentire certi discorsi torna in mente la Germania degli anni ’30. Ci sono sempre delle persone ricche dietro alle manipolazioni più malefiche. Lo schema segue quello di un autentico ‘pogrom’, come quelli avvenuti in Russia, in Polonia, in India e Sri-Lanka. Sono avvenimenti terrificanti che non cambiano a seconda del paese dove si svolgono”.
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