BERLINO – Pare che Sherlock Holmes, insieme a Dracula, sia il personaggio più rappresentato dal cinema, con una cosa come quattrocento titoli dall’epoca del muto alla serie tv americana Elementary. Ma per quanto sovraesposto, finora non avevamo mai visto il detective di Baker Street come lo vediamo nel film di Bill Condon, fuori concorso a Berlino e in sala con la Videa l’autunno prossimo. Mr. Holmes è un uomo ormai decrepito, assalito da sintomi di demenza senile che cerca di scacciare con un infuso di erbe giapponesi. Da tempo ha abbandonato la lente d’ingrandimento e si è ritirato nelle campagne di Dover per dedicarsi all’apicoltura. Il fedele Watson è ormai morto e lui vive di ricordi e di rimpianti (il suo ultimo caso, che non riesce a ricordare fino in fondo, ha portato alla morte di una giovane donna). Abita con una vedova di guerra che gli fa da governante (Laura Linney) e con il figlio di lei, un ragazzino di dieci anni piuttosto sveglio e appassionato di indagini (Milo Parker) che prende sotto la sua ala protettiva.
Mr. Holmes ci restituisce in azione la coppia di Gods and Monsters, in qualche modo film gemello di questo: lì si partiva dalla biografia di James Whale, il creatore di Frankenstein, per una riflessione sulla memoria e il declino di un artista, qui si pone piuttosto l’accento sulla estrema possibilità di costruire legami affettivi con i propri simili per chi ha seguito invece rigidamente i percorsi della ragione. Ma soprattutto Bill Condon torna a dirigere Ian McKellen, che per quel film ebbe una nomination all’Oscar e che è davvero strepitoso qui nel muoversi tra i turbamenti di un personaggio che il 75enne attore britannico, meglio noto al grande pubblico come il tolkeniano Gandalf, ritrae in due età della vecchiaia: novantenne nella linea narrativa principale e sessantenne nei numerosi flashback.
“Ho interpretato almeno 250 ruoli, sul palcoscenico e al cinema – ha detto McKellen – e tra questi molti grandi inglesi, nel bene e nel male, compreso il cattivissimo Riccardo III. Ma Sherlock Homes è sicuramente il più importante e famoso. Anche se non è mai esistito credo che ognuno di noi abbia la sua immagine in testa”. Lo Sherlock del film, ricalcato dal romanzo dello scrittore americano Mitch Cullin A Slight Trick of the Mind, si stacca volutamente dall’iconografia classica, immaginando che il caustico investigatore nato dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle non abbia mai indossato il berretto con la visiera e che preferisca le sigarette alla pipa. Per giunta Condon non si lascia sfuggire l’occasione di mandare il suo personaggio al cinema a vedere una versione dei suoi casi, restandone naturalmente deluso.
Muovendosi tra vari piani temporali e luoghi, compreso un viaggio nel Giappone funestato dalla bomba atomica di Hiroshima (siamo nel 1947 e le ferite della seconda guerra mondiale sono ancora aperte), il film, per regista e attore, è soprattutto una storia d’amore. “Racconta un’esperienza mai fatta prima da Sherlock Holmes – dice McKellen – la possibilità di cambiare la propria vita prima della fine. Anni prima aveva rifiutato l’amicizia e forse l’amore di una donna, che poi si era tolta la vita, ma in quel modo aveva sacrificato anche se stesso alle sue paure”.
Tra le difficoltà del film, quella di avere a che fare con un autentico alveare. “Ho spiegato subito a Bill che non sapevo niente di api, ma lui mi ha spedito a fare un corso di apicoltura. Alla fine posso dire con orgoglio che non ho usato una controfigura e non ho neanche indossato i guanti. Ma non sono stato mai punto e non abbiamo fatto del male alle api coinvolte nel film”, scherza l’attore.
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