Dopo il mio Jona che visse nella balena non volevo più occuparmi dello sterminio degli ebrei. E’ stato l’amico Furio Colombo a insistere perché leggessi il libro di Edith Bruck ‘Quanta stella c’è in cielo’ a cui è liberamente ispirato il mio nuovo film. Cuore della narrazione è, in entrambi i casi, un tema poco affrontato: il dopo Shoah, cioè la vita dopo la morte”.
Roberto Faenza con Anita B. – l’iniziale rinvia al cognome della scrittrice ungherese – prova ad andare controcorrente con il racconto dei giorni vissuti, immediatamente dopo la fine della guerra, da un’adolescente di origini ungheresi, sopravvissuta ad Auschwitz. Anita torna alla vita in un paese di montagna vicino a Praga, con tenacia e volontà insegue il sogno di un futuro dopo il trauma della perdita dei genitori nel lager. Un desiderio di rinascita, ma anche di ritorno alle proprie origini, “con unico bagaglio il futuro” nonostante il desiderio di quanti la circondano, dalla zia Monika al giovane Eli di cui s’innamora, di dimenticare l’esperienza del campi di annientamento, come fosse qualcosa di cui vergognarsi.
Non per tutti è rimozione: non per lo zio Jacob, voce consapevole della tradizione ebraica, e non per Sarah, la ‘traghettatrice’ che prepara l’esodo verso la Palestina. E Anita si troverà, dopo la tenera amicizia con il giovane David, a scegliere se rimanere o meno nella comunità che l’ospita. Anita B., una produzione Jean Vigo, Cinema Undici con Rai Cinema, uscirà in 20/25 copie con la Good Films, il 16 gennaio, a ridosso del Giorno della Memoria, e proprio il 27 gennaio l’opera verrà presentata a Gerusalemme.
“Purtroppo se un film è una produzione indipendente e non viene distribuito da 01, Medusa o Warner, incontra difficoltà enormi ad arrivare in sala – sottolinea la produttrice Elda Ferri – Non ci sono né la voglia né la consapevolezza di offrire al pubblico un’ampia gamma di titoli”. Faenza aggiunge che gli esercenti credono si tratti di un film sull’orrore nazista, “ignorando del tutto che il centro della vicenda è la vita dei sopravvissuti nell’immediato dopoguerra”.
Per Eline Powell, già diretta da Dustin Hoffman in Quartet, non è stato facile immedesimarsi nel personaggio di Anita che porta con sé un bagaglio pesante. “Ho visitato un lager nazista prima di girare il film per sentire quella terribile esperienza. Ho voluto comunicare ad Anita la speranza, lei vuole l’amore di tutte le persone che la circondano, vuole ricominciare daccapo”. Robert Sheehan, popolare interprete di una serie tv inglese per adolescenti, è Eli, giovane e bello che fa cascare tra le sue braccia l’innamorata Anita. “Non si preoccupa di provocarle sofferenza, ma non è un personaggio tutto negativo, ma fatto di luci e ombre. Anche Eli è un uomo fragile che non ha più fiducia nel mondo dopo la tragica perdita del suo amore”.
Andrea Osvart si è trovata a suo agio nei panni della zia Monika, una donna, ungherese come l’attrice, prigioniera della rabbia e del dolore, “sentimenti che ho ricercato pensando a quando mi sono allontanata dai miei venendo in Italia”. Moni Ovadia, il simpatico e solido zio Jacob, dice di aver nuotato nel suo stagno: “Da anni mi occupo dell’ebraismo del Centro Europa. Pochi erano gli ebrei ungheresi che parlavano la lingua yiddish. Jacob è stato forse un partigiano, non è un sionista, il suo compito è ridare fiducia alle persone segnate dal dolore, riportare al centro la possibilità di vita una volta lasciatosi alle spalle l’abisso”.
E dopo la Shoah, tra i prossimi progetti di Faenza potrebbe esserci un film tv sulla vita di Papa Francesco, prodotto dalla Taodue Pietro Valsecchi che intende proporre al regista il progetto. Il produttore pensa a un’opera in due puntate, girata in inglese per poterla esportare all’estero, e con possibile protagonista lo spagnolo Antonio Banderas.
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