Il primo a evocarlo nell’ accezione cristiana fu Papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo; la Controriforma cattolica inserì l’esistenza del Maligno nel catechismo; nel Novecento due papi (Paolo VI nel ’72 e Giovanni Paolo II nell’86) ne riaffermarono l’esistenza; 50 anni fa William Friedkin gli diede voce e sembianze, facendolo precedere dalla divinità siriaca Pazuzu, “l’impetuoso” dio dei venti e delle calamità.
Contro di lui schierò i due sacerdoti de L’esorcista e da allora il Demonio al cinema è sinonimo di quel film che ha fatto storia ben oltre i confini dell’horror. Adesso Warner Bros. ha fatto restaurare l’opera in 4k, presentandola alla Mostra di Venezia e poi nelle sale per l’anniversario. A Venezia il regista, che per quel film aveva guadagnato 10 candidature all’Oscar (ne vinse due), non c’era più e l’autore del romanzo e produttore del film, William Peter Blatty, se ne era andato sei anni prima.
Il 4 ottobre scende infine in campo, con lo scudo di Universal, un esperto della materia come David Gordon Green che sfida l’originale con il reboot/sequel L’esorcista: il credente e già ci informa che sarà il primo capitolo di una trilogia. Di storie con ragazzine che fanno un passo falso oltre il razionale e si imbattono nelle presenze assassine che escono dagli incubi, dalla furia, dal paranormale, ne conosciamo a bizzeffe e si potrebbe dire che da Stephen King in poi questo è il nucleo vitale del genere horror in salsa americana (e giapponese). Ma le differenze con L’esorcista sono profonde: romanzo e film partono infatti da un fatto di cronaca che fece scalpore nel 1949 e vide in azione un vero esorcista alle prese con un adolescente di Mount Raider nel Maryland; il cattolico Blatty e l’agnostico Friedkin trovarono una perfetta intesa nel sottrarre la vicenda ai contorni del facile effettismo per costruire una progressione, dall’inquietudine al terrore, che si incrocia con la detection, la psicanalisi, il bergmaniano silenzio di Dio.
E’ noto che il risultato fu dirompente con code al cinema, svenimenti e crisi isteriche, attacchi censori, leggende più o meno credibili sulla maledizione che colpì molti dei partecipanti alle riprese. Oggi tiene il posto che già fu di Psycho, un modello a cui attingere (vanta tre sequel, una serie tv, due parodie irresistibili, infinite citazioni e due riedizioni in “director’s cut” per dare soddisfazione a Blatty che voleva un finale più rassicurante), prima del guanto di sfida lanciato da Gordon Green. Il quale, avendo abbandonato da un pezzo le velleità autoriali per trovar credito commerciale con la trilogia del nuovo Halloween, sceglie la strada del “raddoppio”: se Friedkin aveva un’indemoniata, lui ne schiera due; per logica conseguenza ecco in campo due genitori (un padre e una madre) con aggiunta della rediviva Ellen Burstyn in scena come esperta della materia, mentre Linda Blair si accomoda a fianco del regista come consulente in vomito e convulsioni.
Siamo in tempi di politically correct e quindi le due bambine possedute dal demonio sono una afro e una bianca, ma il loro destino batte all’unisono e salvarne una significa condannare l’altra. A ogni scena si sente che il regista avverte il peso dell’originale – ne riprende tra l’altro il leit motiv musicale, le Tubular Bells di Mike Oldfield -, ma ha ben chiaro che sta facendo l’artigiano, non l’artista, e questo atto di umiltà è forse il suo maggior pregio. Non so se chi entra in sala adesso per scoprire L’esorcista del 1973 prova la stessa, sconfinata paura di 50 anni fa. Ma so per certo che è la presenza tangibile del Male a creare un’inquietudine destinata a crescere sequenza dopo sequenza. Si può non essere cattolici – non a caso Max von Sydow fu scelto dal regista perché camminava con l’eco di Bergman al suo fianco anche vestendo la stola di Padre Merrin -; si può evocare una divinità ancestrale oppure accettare che la piccola Regan venga posseduta per aver giocato con la tavoletta magica ouija trovata casualmente in un armadio, ma è l’idea stessa del Demonio come Male assoluto a dominare ogni sequenza. Fateci caso, tutto il film è giocato su questo contrasto: realtà quotidiana e presenza inconscia; mondo del cinema (la mamma di Regan fa l’attrice e ne vive la finzione) contro mondo della fede incarnato dal fiaccato Merrin e dal dubbioso Damien Karras. Che, a sua volta, è prete e psichiatra. La potenza del rito dell’esorcismo contagiò a tal punto Friedkin che, tanti anni dopo nel 2017, girò il documentario The Devil and Father Amorth seguendo con crescente convinzione vita e opere del più celebre esorcista in attività.
Niente a spartire con l’imbarazzante Russell Crowe de L’esorcista del Papa. Anche per questo il capolavoro dell’autore di French Connection rimane inimitabile: lì il Diavolo si manifesta davvero e non è un semplice idoletto buono per spaventare i teen agers. Torniamo a casa e ne portiamo i segni chiusi dentro l’armadio dell’inconscio. Ma se si svegliassero?
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