VENEZIA – Durante il conflitto russo-ucraino del 2014, un medico di guerra si trova imprigionato nel terribile carcere di detenzione russo detto “Isolation”, diventato poi celebre per le testimonianze sulle torture che venivano praticate al suo interno. Una volta liberato, dovrà affrontare le conseguenze di quanto vissuto, ripristinando il legame con la figlia e la ex moglie, in una reciproca scoperta e accettazione del concetto di morte.
Dopo il successo nella sezione Orizzonti di Venezia 76 con Atlantyda (2019), Valentyn Vasyanovych torna alla Mostra con Vidblysk (Reflection), il primo film ucraino in concorso a Venezia da dopo la fine della guerra. L’opera prosegue la visione registica, fondendo la freddezza statica dei quadri di Roy Andersson alla prospettiva centrale di un altro Anderson, Wes. Un cinema rigido, distaccato, fatto di inquadratura perlopiù fisse, prive di stacchi e montaggio, in cui tutto il virtuosismo sta nella bellezza fotografica e compositiva dell’immagine e nella capacità di sorprendere con quello che vi accade all’interno. L’autore, infatti, seppure privandosi di idee registiche e narrative, decide di affidarsi interamente all’effetto voyeur. Lo spettatore si trova a guardare scampoli di realtà che si dipanano lentamente davanti ai suoi occhi come su un palcoscenico teatrale, con la differenza che a teatro non sarebbe possibile riprodurre la scioccante violenza o la sorprendente imprevedibilità di alcune azioni.
“Inizialmente pensavo di fare un documentario, dopo avere girato 4-5 scene bellissime, ho capito che volevo farne un film di finzione. – rivela il regista – Non seguo mai la sceneggiatura che scrivo, la modifico in base all’esperienza delle persone che incontro. Ne viene fuori una storia a metà tra il surrealismo e il documentario, per cui solo alla fine capisco cosa voglio davvero fare. Parto sempre dalle location, ognuna porta con sé una energia diversa, dentro la quale mi muovo e immagino i protagonisti”.
Insomma, quello di Vasyanovych è un cinema puro, in cui domina il movimento dei corpi e le intenzioni dei caratteri, e in cui ogni elemento ha un significato, simbolico prima che narrativo. Non certo un’esperienza facile per lo spettatore, ma neanche per l’attore, che si trova ad attarsi a un metodo autoriale unico nel suo genere. “Valentyn è una garanzia di qualità – dichiara l’attore protagonista Roman Lutskyi – abbiamo dovuto studiare molto, informarci su quello che era accaduto in quei luoghi attraverso numerose testimonianze. Alla fine ero pronto ad affrontare le scene, anche se è stato psicologicamente molto difficile, perché il processo ti lascia addosso una certa depressione”.
Chi conosce di più questo metodo è l’attore Andriy Rimaruk, protagonista di Atlantyda (considerato quasi un prequel di Reflection per le tematiche legate alla guerra), e presente in questo film in una parte minore, seppure molto intensa. Rimaruk, reduce di guerra prima che attore, ringrazia il regista “per avermi regalato il biglietto per il mondo del cinema, e per avermi fatto capire che la guerra no cambia le persone, ma te le fa scoprire”.
Il cuore del film è evidentemente il rapporto tra padre e figlia, il modo in cui i più piccoli vengono a contatto con il concetto di morte e le responsabilità dei genitori, o meglio la loro impotenza in merito. La parentesi della guerra, che occupa tutta la prima parte del racconto, risulta quindi un pretesto per impostare una cornice efficace, carica di conflitto. Il rischio è, però, che questa parentesi si mangi tutto il resto, rimanendo impressa nella mente dello spettatore più di ogni altra cosa. Gli orrori di una guerra contemporanea combattuta ai confini neanche così estremi dell’Europa, le violenze indicibili, raccontate con così tanto, crudo realismo non possono che lasciare una traccia preponderante su tutto il film. Il “riflesso” del titolo si deve dunque interpretare con la specularità delle due parti del film, quella sulla guerra e quella sulla famiglia, una specchio dell’altra, a ricordarci del peso di dolore e disperazione che ogni ucraino deve portarsi appresso anche anni dopo la fine del conflitto bellico.
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