SIRACUSA – “Un narratore distopico, un visionario apocalittico, un vero ribelle”: sono alcune delle definizioni che vengono date a Michele Perriera, scrittore, giornalista, drammaturgo e regista teatrale a cui è dedicato Il piano segreto. Il documentario diretto da Ruben Monterosso e Federico Savonitto, in Concorso al 16° Ortigia Film Festival, approfondisce la figura dell’autore palermitano scomparso nel 2010 non solo attraverso semplici testimonianze, ma raccontando il lavoro di coloro i quali stanno provando a raccogliere l’eredità di un artista che è stato capace di essere straordinariamente profetico nella sua lucida e impietosa rappresentazione della realtà.
Nel pieno della pandemia da Covid-19, la compagnia Genovese Beltramo, a Torino, e la regista Emma Dante, a Palermo, lavorano alla messa in scena di alcuni suoi testi. Nel frattempo, in vista del decimo anniversario della sua scomparsa, i figli Giuditta e Gianfranco provano ad organizzare un evento, richiamando alcuni dei suoi storici collaboratori e gli studenti della sua scuola di teatro Teatès, tra cui la celebre fotografa Letizia Battaglia. Il film ritrae un autore estremamente prolifico e generoso, eppure poco conosciuto lontano dalla sua terra natia. Una figura misteriosa e affascinante che forse con il tempo potrà essere definitivamente rivalutata.
Ruben Monterosso e Federico Savonitto, l’arco temporale del vostro film è molto lungo, copre tutta la pandemia e va oltre anche al la morte di Letizia Battaglia, nel 2022. Quando è iniziato questo progetto?
FS: Il film è iniziato un anno e mezzo prima del covid, alla fine del 2018, ed è nato dall’intento di raccontare la figura di Michele Perriera. Al quale eravamo arrivati da un nostro lavoro precedente, fatto addirittura nel 2012. Eravamo molto interessati a proseguire una ricerca iniziata con un altro drammaturgo palermitano, Nino Gennaro. Eravamo partiti dall’intento di raccontare Perriera come autore, come grande drammaturgo, maestro di Teatro. Ci siamo resi conto che a Palermo, nell’immaginario comune, Michele Perreira era considerata una figura che faceva teatro classico, magari noioso. Noi, invece, entrando nei suoi testi, ci siamo accorti che c’era bisogno di lanciare un’altra immagine: quella di un artista rivoluzionario, un genio non compreso dai suoi contemporanei.
RM: Nel frattempo è arrivato il covid, proprio mentre stavamo affrontando una serie di letture della sua grande produzione, che erano definite distopiche, in quanto raccontavano di futuri, di virus.
Lo spettacolo che stavano preparando a Torino?
RM: Esatto, lo spettacolo dal titolo Buon Appetito che la compagna Genovese Beltramo stava mettendo in scena – che tra l’altro racconta di un femminicidio – e ci siamo ritrovati nel mezzo del primo lockdown.
Incredibile come alcuni frangenti di quello spettacolo sembrino raccontare quello che stava succedendo.
RM: Sì, una scrittura profetica. Anche se non era il centro dello spettacolo, ma il sottofondo. Un contesto normale, così come sembrava che a un certo punto stesse diventando la pandemia.
FS: Il documentario in quel momento si intitolava Il caso Perriera, perché nonostante l’enorme mole di scritti che aveva lasciato e il quantitativo enorme di persone che aveva coinvolto nella sua scuola di teatro, era un autore poco conosciuto. Ci siamo immersi nella sua autobiografia, Romanzi d’amore, e ci siamo accorti che dentro di lui c’erano tutta una serie di dissidi interiori che erano legati anche al non volere mai venire a patti con il potere o fare alcuna forma di compromesso. Ci interessava questa figura che aveva rinunciato a farsi riconoscere pur di essere sempre coerente. Questo suo pensiero si riflette anche nei suoi testi più distopici, come gli Atti del bradipo. Quando è arrivato il covid abbiamo iniziato a prendere quella traccia e abbiamo dovuto lasciare fuori moltissime cose.
RM: Non è facile fare un film prettamente biografico su un personaggio così. Ci sono così tante cose importanti nella sua vita che forse ci vorrebbe una serie tv.
Il vostro compito è stato scegliere un punto di vista, no?
RM: Nel momento in cui ci siamo ritrovati con la realtà che ci veniva a sottolineare alcune cose che leggevamo ci sono venuti i brividi. Abbiamo detto: è questa la strada.
FS: La realtà ci ha dato ragione perché hanno continuato a succedere cose su questa linea: Emma Dante ha deciso di lavorare su un altro testo preso dagli Atti del bradipo, di chiamare degli anziani a fare questo laboratorio.
Quindi voi eravate in piena lavorazione del film, avete scoperto che Emma Dante stava portando avanti questo progetto e vi siete detti: dobbiamo filmarlo!
RM: In realtà, le cose si generano a vicenda. La figlia di Michele, Giuditta, che era tra le protagoniste fin dall’inizio, viene chiamata da Emma Dante proprio come presenza di memoria, come garante sui testi. Era un laboratorio molto coraggioso, perché in quel periodo gli anziani erano i soggetti più deboli, che venivano isolati per garantire la loro sopravvivenza. C’erano politici che sottolineavano quanto socialmente fossero poco importanti ed Emma Dante li ha messi al centro del suo teatro.
Che poi il teatro e l’arte performativa sono tra i settori che più hanno sofferto in quel periodo.
RM: Sì, noi in parte lo raccontiamo. Di sottofondo a tutto c’è la resistenza e la resilienza del teatro. La lotta che raccontiamo a Palermo.
C’è quel momento crudele e bellissimo, in cui riprendete la compagnia Genovese Beltramo che scopre del rinvio a data da destinarsi dello spettacolo a causa della pandemia. Si legge proprio l’improvviso sconforto sui loro volti. Davvero molto intenso.
FS: Per noi è stato davvero forte, perché eravamo lì. Eravamo davanti alla realtà che avveniva. Dovevamo solo filmare lo spettacolo e non sapevamo neanche come prendere la notizia. All’inizio era una delusione perché non riuscivamo a filmare quello per cui eravamo andati, poi invece, quasi subito, abbiamo sentito dentro che c’era qualcosa che andava oltre.
Quando avete scelto il nuovo titolo e perché?
RM: Il titolo è quello di un’opera di Perriera che rappresenta l’essenza del nostro film. Michele in alcuni testi che si vedono nel film parla proprio di un potere segreto che cova un piano alle spalle delle istituzioni democratiche e della popolazione. Lo fa in maniera così precisa articolata e profonda, che tutto si può dire ma non che fosse un cospirazionista dei nostri giorni. A parte che ha fatto questi discorsi molto prima.
La sua era quasi fantascienza.
FS: Una fantascienza che si basa sul presente, in cui vedeva i germi che avrebbero portato alla situazione in cui ci troviamo.
RM: Per fortuna la fantascienza è stata portata a un livello di letteratura alta. È servita a molti autori per raccontare momenti di particolare censura. Mondi esistenti, ma sotto una forma completamente aliena per potere esprimere dei contenuti che erano pregnanti nel presente.
FS: E poi in qualche modo Il piano segreto è un titolo che ci permetteva di essere ampi su tutti i vari livelli del film, anche quello emotivo, familiare. A un certo punto c’è un breve teste dedica al figlio Gianfranco, in cui Michele parla di un piano segreto nel figlio: da alcune sue gestualità capiva che avrebbe fatto teatro. Ci tenevamo a fare un film caldo, anche emotivamente.
Di chi è la voce narrante?
FS: Di Umberto Cantone, che è stato un antagonista di Perriera. I figli erano perplessi su questa scelta. Poi lo hanno ascoltato e sono stati molto felici.
RM: Sono stati molto aperti sotto questo aspetta. Ovviamente avevano un senso di protezione nei confronti di loro padre, però sono persone di cultura e hanno capito.
FS: Cantone agli inizi era in un terzetto con Ciprì e Maresco. Ora tornerà a collaborare con Maresco per un film su Carmelo Bene.
Considerando che non è un personaggio molto popolare, soprattutto fuori dai confini siciliani, quale eredità vorreste che rimanesse? Anche grazie a questo film.
FS: Posso citare lui stesso. Tra i tanti testi che scrive, ce ne è uno in cui racconta di una pandemia di cecità che prende i bambini. Un testo del ’68, prima ancora di Saramago. Lì scrive: vi lascio in eredità i miei sogni. Questa citazione ci piaceva anche perché lui ai suoi figli non ha lasciato niente. Ha speso tutto nel suo teatro. Lui ha dato tutta la sua vita per questo scopo.
RM: Lo dimostrano le centinaia di suoi studenti che ora sono tra i più grandi attori palermitani e non solo, veniva gente da tutta Italia. Questo dimostra la sua capacità maieutica e il fatto che si donasse completamente agli altri. Era una figura carismatica e molto ascoltata. Mi piace pensare che l’eredità che lascia sono proprio i suoi sogni.
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