Esce il 23 settembre con 30 Holding il suggestivo Parsifal di Marco Filiberti, rilettura moderna – ma verrebbe più da scrivere “atemporale” – del mito epico-cristiano, ricca di atmosfera e misteri, che pur non nascondendo la propria natura e origine teatrale non rinuncia e anzi esalta l’apparato cinematografico, con inquadrature ricercate, location affascinanti e una fotografia molto curata a opera di Mauro Toscano.
Si prende giustamente i suoi tempi – 135 minuti totali – lasciando agli attori il giusto spazio per infondere energia rituale nelle proprie battute, senza perdere potenza ma anzi guadagnandone nel passaggio su pellicola. Palemède e Cador, due marinai, a bordo della loro imbarcazione, il Dedalus, ormeggiata in un porto del Nord, ingannano il tempo parlando e sfogando le proprie passioni. E’ un’ambientazione, come dicevamo, senza tempo, e piuttosto decadente.
Non ci sono specifiche indicazioni, ma potrebbe trattarsi di un mondo post-apocalittico, dove sono ben chiari i segni della sopravvivenza alla rovina. Parsifal è qui un giovane svagato, ingenuo, fuori dal mondo. Sciogliendo il nodo che tiene legato il mercantile costringe i due a scendere a terra. Qui incontrano due prostitute, Elsa e Senta, ma è Kundry, che gestisce il bordello, ad avvicinare Parsifal del quale sembra conoscere il misterioso passato. Lasciato il porto, Parsifal prosegue il viaggio tra deserti e campi, incontrando prima un uomo ferito all’inguine, Amfortas, abitato da visioni apocalittiche e straziato dal dolore di un insopprimibile desiderio, ed è proprio lui a indirizzarlo all’origine di quella ferita e alla ricerca di un personalissimo ‘Graal’.
“In un tempo oltre il tempo – dichiara Filiberti – nella terra desolata ha luogo il viaggio apocalittico del puro folle, l’uomo che smarrita ogni certezza, perfino quella di una propria identità biografica o di una memoria storica, può inconsapevolmente forgiare un nuovo modo di “essere nel mondo” nella fiduciosa einuncia alla propria volontà, attraverso la compassione. Un’esperienza totale della pratica dell’essere, antagonista a quella del fare, dèmone dell’Occidente”. ù
“E’ un’opera d’arte totale – si legge in una nota – un viaggio iniziatico che conduce dritto al centro del mistero delle nostre esistenze, dove spiritualità e desiderio non sono mai stati così prossimi l’uno all’altro” . Il cast è costituito dagli attori della Compagnia degli Eterni Stranieri: Matteo Munari, Diletta Masetti, Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena a Crucianelli, Zoe Zolferino e Filiberti stesso nel ruolo di Amfortas.
“Avevo portato gli attori a una temperatura specifica e non potevo più attendere – racconta il regista – come si fa con i cavalli da corsa. E poi c’erano istanze di natura ontologica e spirituale che appartenevano a me e non a loro. Io ero la gestazione e poi sono più grande, ho un vissuto specificamente mio, mentre loro avevano le sane istanze di giovani attori. Se avessi fatto passare anni la loro temperatura si sarebbe affievolita. Strappai le riprese e ogni volta che accadeva qualcosa il risultato muoveva motivazioni collettive sempre più forti, e poi Sandro e tutti gli altri cominciarono a credere a questa vicenda così singolare. Sapevamo che l’impianto scenografico e il lavoro enorme ed estremamente articolato dove nulla doveva essere lasciato alla casualità doveva rispondere a un assetto drammaturgico che doveva eseguire una narrazione autonoma, e questo avrebbe implicato enormi sforzi. Portavo tutti a vivere in una dimensione sincronica, non pensavamo a ‘quanto tempo abbiamo’ ma alla ‘quidditas’. Mi muovevo e cercavo di sedurre tutti per potersi affratellare e affidare a qualcosa che non siamo soltanto noi stessi, con le nostre forze e le capacità che siamo coscienti di avere. Sono una parte di noi che può risultare imbrigliante. Funzionano sul segmento breve ma non sul grande sguardo escatologico della propria vita. Nel mio caso il mio lavoro si fonde e si confonde con la mia esperienza biografica”.
“Credo che oggi non sia più intuizione degli illuminati capire che siamo al centro di un’apocalisse – continua Filiberti – Siamo non solo alla fine di una civiltà ma alla fine di un corredo antropologico. Le arti sono in ritardo rispetto alla volontà di annunciare nuovi cieli e nuove terre che sono già qui e adesso. Il collasso è visibile a tutti i livelli mentre è meno visibile che si formino con zelo e motivazione molti atolli di persone in tutte le realtà possibili. Il cinema si scorda che appartiene al bacino dell’arte e non solo dell’intrattenimento e del mercato. Parsifal è un mito apocalittico ed escatologico. Non mostra il disfacimento, il disfacimento è già avvenuto. E’ facile mostrare la caduta, il disfacimento, il male, diventa una fantascienza che non è più fantascienza, ma come in Blade Runner, un replicante che continua a replicarsi. Ma io credo che il destino finale sia escatologico e redentivo, luminoso. L’arte si dovrebbe occupare di inverare, e non solo mostrare, questo aspetto. Il mito di Parsifal mostra una possibilità reale, che è quella della resa. Invece di continuare a identificarci con il nostro ego, che ci fa solo macinare nell’Apocalisse, e nutrirci del marcio che ci fa male, ingurgitando veleno che spegne i nostri canali e i nostri ricettori, tutte le possibilità di una visione che travalichi questo momento fenomenologico. Parsifal è un archetipo che appartiene all’epica cristiana ma le sue radici superano tutto questo, e riguardano l’uomo finalmente libero, che ha la forza di rinunciare e rendere la propria persona, che passa attraverso ciò che è più identificante, che a mio parere è il desiderio, che identifica tutti gli umani. E’ la spinta che tutti abbiamo verso il generare e il procedere. Se la si rende Dante, Cristo e Platone si allineano sullo stesso, medesimo filo, che è quello di costituire la nostra libera identità. La resa è un desiderio con una resa ontologica. Questo ci permette di superare il tempo diacronico e trovare il nostro grande io nell’eterno presente. La via è stretta, chi non ci vuole passare finirà fuori”.
Il tempo sembra essere un tema portante, tanto che a un certo punto del film arriva uno spostamento spiazzante: “Il porto di Odessa apre il film e lo ritroviamo nel pre-finale. Rappresenta la terra desolata che è la nostra condizione. Una condizione stagnante, in cui si possono avere rigurgiti di intuizioni, ma ormai il veleno è totalmente predominante. Ho collocato idealmente questa fase tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, l’epoca del primo profeta della decadence, Nietszche, e quel porto è fortemente nietszchano. Parsifal ha la Grazia – dice ancora il regista – e tra le possibilità della grazia c’è quella di non ricordare. E’ un istinto che lo porta a dimenticare, a non sapere niente, da dove viene, come si chiama. E’ una condizione fortunata, che lo porta ad avere una percezione più spalmata a tutte le latitudini. Amfortas appartiene invece a un alto Medioevo, un tempo in cui la spiritualità era dogmatica, investita di gerarchia. Amfortas è prigioniero di una lacerazione, anche fisica, eternamente presente, data da due cose che sono la stessa: la sua identificazione potente con il desiderio e il suo aver lasciato il mondo arrivare al punto in cui è. Finché non abbracciamo la via stretta, ognuno di noi è responsabile di tutto quello che è avvenuto e sta avvenendo. Siamo tutti la stessa persona, e dunque anche Parsifal e Amfortas. A questo arriveremo, alla libertà della nostra singola identità”.
Al film è associato il libro ‘Il mio Parsifal – Inveramento di un mito’, scritto dal regista e pubblicato da Titivillus.
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