Hannah Strong, giornalista inglese, curatrice della rivista on line Little White Lies, ha pubblicato Sofia Coppola: Forever Young (Abrams, New York), con la prefazione di Alice Rohrwacher intitolata “Il giardino di Sofia”, un testo personalissimo che vi compare sia nella nostra lingua che in inglese.
“Un giardino è il luogo misterioso dove molte storie hanno inizio. Forse, ancor più di un giardino, è la memoria di un giardino in cui non possiamo tornare ciò che ci spinge a raccontare. Il rigoglioso giardino dell’Eden, il giardino selvaggio delle Esperidi, gli stupefacenti giardini pensili di Babilonia. . . . Oh, se potessimo entrarci! Oh, se potessimo stenderci all’ombra dei loro alberi, cogliere quei frutti, odorare quei fiori! Eppure, ne siamo stati esclusi. Sono ormai luoghi mitologici, pietre di paragone della nostra vita, nostalgia incolmabile e suadente di un altrove. Tra tutti i giardini, per me che sono nata negli anni ’80, ce n’è uno che i nostri antenati ancora non conoscevano, ma è uno dei primi che mi appare quando chiudo gli occhi. È il giardino di una villetta americana. Si accede dalla porta sul retro, una porta chiara, luminosa. Abbraccia tutta la casa e la protegge, oltre le sue siepi si ripetono altri giardini all’infinito, come onde del mare. Lì erano ambientati gran parte dei film e delle serie che vedevamo. Era un luogo dei sogni, in cui sbocciavano amori, si costruivano case sugli alberi, si accendevano i primi baci, il luogo in cui gli amati ancora si arrampicavano di notte dalle finestre e i figli a turno dovevano tagliare l’erba. Io che crescevo tra campi brulli pieni di spine, tra paesi invasi dal cemento, sognavo quell’erba soffice, quelle storie avventurose come la cosa più deliziosa del mondo. E mi struggevo al pensiero che la mia casa era sbattuta ai venti, non era protetta da un giardino, e in più non aveva nessuna porta chiara sul retro. Ma anche da questo giardino, dolce memoria d’infanzia, sono stata cacciata”.
“La maga che mi ha svelato il suo mistero etereo e spietato è una delle più grandi registe che conosco, Sofia Coppola. Ricordo bene il giorno in cui, sul limite del millennio che stava per finire, sono andata a vedere Il giardino delle vergini suicide. Quel giorno il mio sguardo si è trasformato. Sofia, come una Calipso dei nostri giorni, tesse una gabbia dorata, una bellissima prigione assolata da cui si può uscire solo attraverso la porta più buia e segreta, quella della morte. Da allora ho sempre rincorso i suoi film come si rincorre un rito arcano, cercando le sue storie come si cercano le formule magiche per aprire nuove porte dell’anima. Il suo sguardo fiorito e ironico, quanto spietato e affilato come una lama, mi ha accompagnato e trasformato. Il suo cinema è per me come l’isola di Ogigia in cui abitava la dea Calipso: è sempre da qualche parte. Da qualche parte, sarebbe a dire in un luogo che tutti conosciamo ma non possiamo tracciare con sicurezza sulla mappa. Spesso sentiamo di riconoscerlo, ma mai fino in fondo. È un luogo dell’anima. E verso questo ‘da qualche parte’ si muovono i suoi personaggi, che non sanno bene dove andare perché quello che importa è lo stare, che accolgono il loro destino come un vecchio amico ubriaco, con gioia mista a rassegnazione. Che siano diafane adolescenti spiate dalle finestre della memoria, che siano ragazzine perdute in un albergo che assomiglia a tutti gli alberghi del mondo, o uomini soli in cerca di una cura, che siano donne rese insolenti dalla solitudine o adolescenti bizzarre, su tutti è piombato addosso un destino senza che loro potessero farci niente».
“E nei suoi film Sofia traccia l’educazione di un’anima, l’educazione di un’attenzione, affinché anche un piccolo gesto possa produrre una eco poderosa. Si entra in un film di Sofia proprio come si entra in un giardino: all’inizio si è frastornati dai colori delle foglie, dei fiori, dai profumi e dai canti degli uccelli, ed è bello stare lì. Ci viene voglia di esplorare i viottoli segreti, di giocare con l’acqua di una fontana. Ma dopo poco lo sguardo viene condotto su un unico piccolo insetto che succhia il nettare di un unico fiore. E come d’incanto sparisce il giardino, sparisce l’abbondanza, per trovarsi di fronte a qualcosa di piccolo ed essenziale. Penso ad una delle mie scene preferite di Lost in Translation, la scena in cui Bob e Charlotte finiscono a letto non per fare l’amore, ma per parlare. Si raccontano il passato, il futuro, sogni e aspirazioni. E alla fine, tutto il loro intenso quanto vago rapporto si riassume in quel piccolo gesto con cui Bob sfiora il piede di Charlotte, e che racchiude in sé con precisione tutto l’amore non visto, le parole non dette. Ecco, i personaggi di Sofia sanno tutti che non si finisce mai di crescere, e che crescere è sempre un mistero, un baratro che attrae e respinge. E che per crescere c’è sempre qualcosa a cui dobbiamo rinunciare, l’isola di Ogigia che dobbiamo, marinai nell’alba, abbandonare. I personaggi dei suoi film continuano ad accompagnarmi nel mio viaggio e sembrano guardarmi negli occhi e dirmi ‘non c’è niente che possiamo fare, è andata così’, mentre sorridono e piano piano scompaiono portandosi nel buio il loro segreto. Mentre penso ai suoi film, ai suoi personaggi, penso a una discesa, vertiginosa. Una scalinata che si scende di corsa, col cuore in subbuglio, tra il riso e il pianto, verso il mare”.
La biografia critica di Hannah Strong, illustrata da numerose foto di scena, abbraccia l’opera intera di Sofia Coppola, dai lungometraggi ai corti, ai music-video, ai commercial. Interviste con alcuni dei collaboratori arricchiscono il volume: Kirsten Dunst, Jean-Benoît Dunckel, Sarah Flack, Philippe Le Sourd, Nancy Steiner, Brian Reitzell. “La principale caratteristica dell’opera di Sofia è l’onestà. Attraverso sette lungometraggi e vari altri saggi creativi sembra sia alla ricerca costante di qualcosa di reale, dal dolore adolescenziale del suo debutto a colori pastello fino al conflitto coniugale di On the Rocks del 2020. Essere figlia di uno dei registi più famosi di Hollywood è un privilegio considerevole che ha concesso a Sofia un forte senso di libertà creativa; non ha mai cercato di essere suo padre, e i suoi film sono senza dubbio migliori per questo motivo, ci colpiscono per la loro intimità e vulnerabilità, attingendo dall’arte, dalla moda, dalla musica pop e dalle celebrità al fine di creare qualcosa di familiare e di astratto nello stesso tempo”.
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È disponibile online e in libreria dall’11 marzo ‘Percepire‘, esplorare, avventurarsi. Introduzione al cinema sperimentale di Stan Brakhage, monografia firmata da Cristiano Bellemo e pubblicata da Cinematografo Edizioni nella collana...
Il 1° gennaio sarà in sala l’attesissimo Nosferatu di Robert Eggers. Per l’occasione Luca Ruocco, già giornalista, critico, attore teatrale, fumettista e organizzatore del Fantafestival, da dato seguito al suo libro vampiresco per ragazzi ‘Denti da latte’
Ispirato da sogni bizzarri, Luca Ruocco (già tra gli organizzatori del Fantafestival, scrittore e giornalista) ha ideato una docu-serie che esplora il mondo della cultura horror italiana. Con la regia di Paolo Gaudio e un team di collaboratori stravaganti, Il Giro dell’Horror supera rocamboleschi imprevisti, come querele inattese, rapimenti e persino viaggi nel tempo, per completare una prima stagione che racconta le carriere di tre icone del genere: il regista Domiziano Cristopharo, il compositore Fabio Frizzi e il maestro del terrore Lamberto Bava