TORINO – In uno dei momenti più drammatici, l’intervista a un ex militare detenuto per omicidio e sequestro di persona, il generale Eduardo Iturriaga, che si trincera dietro l’obbedienza agli ordini, Nanni Moretti prende la sua posizione: “Io non sono imparziale”. Una frase che la dice lunga sull’atteggiamento del regista, che preferisce evitare le interviste con i giornalisti ma incontrerà il pubblico prima della proiezione ufficiale, domani sera alle 22 al cinema Reposi.
E’ a Torino, come film di chiusura, Santiago, Italia: che riporta Moretti sugli schermi a tre anni da Mia madre, documentario sul golpe cileno dell’11 settembre 1973 e sulla dittatura miliare, sugli esiliati che trovarono asilo nell’ambasciata italiana e che in molti casi ancora vivono nel nostro paese che allora, negli anni ’70, li accolse a braccia aperte trovando loro un lavoro e una seconda patria. Un film che è un’autentica dichiarazione d’amore per l’impegno politico e sociale dei socialisti e comunisti che, all’inizio degli anni ’70, stavano cambiando il Cile sotto la guida del presidente, democraticamente eletto, Salvador Allende. E anche per l’impegno e la partecipazione di un Italia che non esiste più.
Santiago, Italia – che arriva in sala il 6 dicembre con Academy Two – si dipana attraverso un percorso storico, ma anche emotivo con le tante testimonianze dei protagonisti di quelle vicende (tra cui anche due militari fedeli al dittatore Pinochet) e con materiali d’archivio di grande intensità dalle Teche Rai, dall’Aamod e da repertori cileni. E’ lo stesso Nanni, che nella prima scena, di spalle, osserva la città di Santiago dall’alto ad accompagnarci con le sue domande in questo percorso che parte dal 1970 con la vittoria di Unidad Popular e il “sogno ad occhi aperti” che si avvera. Questo Cile, che vuole lottare contro le spaventose ingiustizie con l’alfabetizzazione di massa, i beni di prima necessità a prezzi calmierati, la nazionalizzazione del rame. Misure che fanno paura alla borghesia cilena e sono invise agli americani, che vedono in un paese socialista sì ma anche umanista e democratico un modello pericoloso, che Italia e Francia potrebbero voler replicare. “Era un paese innamorato di Allende e di ciò che stava succedendo – dice Patricio Guzman – ricordo che all’epoca girai un film che si chiamava Il primo anno, che era la ripresa di tutto ciò che succedeva mese dopo mese, per un anno. Era una festa continua, in campagna, in città, nelle case”.
Tra gli interpellati registi e operai, giornalisti e avvocati, artigiani e medici per ricostruire tutte le fasi storiche: l’assalto al palazzo della Moneda dell’11 settembre 1973, l’ultimo discorso di Allende prima della morte: “Ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano”.
Si apre quindi il capitolo più nero, quello delle torture, dei desaparecidos, detenuti illegalmente nello stadio di Santiago o in altri luoghi sinistri. Una delle scene più disturbanti è quella in cui la giornalista Marcia Scantlebury racconta di una aguzzina incinta di otto mesi che le fa togliere la benda dagli occhi e si fa aiutare in un lavoro a maglia, un giacchetto per il bebè che le stava per nascere. E’ un mondo di orrori ciechi in cui sono pochi a prendere la parola contro il sopruso, tra questi il cardinale Raul Silva Henriquez, messo poi a riposo da Papa Wojtyla al compimento dei 75 anni.
Tra gli uomini di buona volontà ci sono i diplomatici italiani – Roberto Toscano e Piero De Masi – che accolgono dentro la nostra ambasciata centinaia di richiedenti asilo. Il muro dell’edificio, in un punto, era poco meno di due metri di altezza e molti lo saltavano, persino sotto gli occhi dei militari; una bimba venne lanciata dentro al giardino dalla nonna. Uomini, donne e bambini che poi vivevano accampati sui materassi a terra o persino nella vasca da bagno, e che ebbero un lasciapassare per l’Italia, trovando un paese solidale e pronto ad accoglierli, al grido di Cile libero, con gli Inti Illimani che suonavano negli stadi e Gian Maria Volontè che piangeva parlando alla folla. “Un paese che aveva fatto la lotta partigiana e che oggi non esiste più, perché l’Italia del consumismo e dell’individualismo somiglia al peggior Cile”, come dice uno dei rifugiati, l’imprenditore Erik Merino.
“Appena Salvini è diventato ministro ho capito perché avevo girato questo film”, dice Moretti al direttore di ‘Repubblica’ Mario Calabresi in un’intervista esclusiva pubblicata sul ‘Venerdì’. Dalle colonne del magazine il regista parla di cinema, social network (mai utilizzati) e confessa il suo disagio di uomo di sinistra di fronte all’attuale situazione politica italiana e a un paese che sembra aver perso i valori fondanti comuni.
Il nuovo progetto di Moretti, Tre piani
Il cortometraggio sul tumore sconfitto
L’evento genera sul territorio un impatto pari a oltre 2,1 milioni di euro, grazie ai consumi del pubblico, particolarmente appassionato e fidelizzato, e alle spese di organizzazione del festival
I dati della 36a edizione: 62.500 presenze, 2.161 accreditati (stampa e professionali/industry), 26.641 biglietti singoli e un maggior numero di proiezioni gratuite e di ingressi omaggio, rispetto all'edizione 2017
Il regista incontra il pubblico al Torino Film Festival prima della proiezione di Santiago, Italia, il suo documentario sul Cile di Allende e il colpo di stato di Pinochet. "Mentre lavoravo al montaggio, mi sono accorto che il film doveva finire in Italia e raccontare una storia italiana di cui andare orgogliosi, proprio oggi che una grande parte della nostra società è chiusa all'accoglienza"
La Giuria di Torino 36 presieduta da Jia Zhang-ke (Cina) e composta da Marta Donzelli (Italia), Miguel Gomes (Portogallo), Col Needham (UK), Andreas Prochaska (Austria) assegna il premio al Miglior film a