I tuffatori di Mostar si lanciano da generazioni, ogni giorno, dal ponte ora ricostruito ma senza nascondere le ferite della guerra nella città dell’Erzegovina. Lo fanno per i turisti, per guadagnare qualche soldo con le mance. Ma lo fanno anche per mantenere viva una tradizione di cui sono orgogliosi e che non si è mai interrotta neppure durante il sanguinario conflitto, quando Stari Most (il Ponte Vecchio), costruito nel 1566 sulla Neretva, è stato abbattuto dall’artiglieria croata. Era il 9 novembre del 1993 e la città era sotto assedio da nove mesi. Il ponte fu distrutto per dividere la città in due: nella parte occidentale la comunità croata e in quella orientale, sotto il controllo dell’esercito bosniaco, i musulmani bosniaci. Fu uno degli episodi più celebri e simbolici della guerra nella ex Jugoslavia, un episodio che il documentario di Daniele Babbo, in concorso a Italiana Doc, rievoca con immagini di repertorio del bombardamento e attraverso le memorie vivide dei tuffatori, tra cui i più vecchi testimoni della fine della Jugoslavia di Tito e poi dell’esplodere del conflitto etnico. Dopo la guerra l’Unesco ha lanciato, assieme alla Banca mondiale, una campagna per la ricostruzione del ponte, a cui hanno aderito cinque paesi (Croazia, Francia, Italia, Paesi Bassi e Turchia), raccogliendo un totale di 15,4 milioni di dollari. Il ponte ricostruito è stato inaugurato il 23 luglio del 2004 ed è quello che vediamo nelle riprese di Babbo, mentre il vecchio ponte riemerge dai materiali di repertorio.
Ma sono soprattutto gli uomini di Mostar a fare il film, offrendosi alla macchina da presa con i loro corpi atletici e tatuati, allenati con cura, con i costumi da bagno vecchio stile, ma anche con i segni di una pratica pericolosa, che richiede perfetta esecuzione e nervi saldi. Il salto nel vuoto, l’impatto con l’acqua gelata del fiume, che viene stemperata bagnandosi con acqua gelata prima del tuffo, la tensione creata dalla presenza del pubblico che vorrebbe accelerare l’evento, il vento che disturba un’esecuzione che si deve svolgere in modo quasi rituale. Nulla è semplice, eppure molti di loro continuano ogni giorno, anche se non più giovanissimi, a tuffarsi. Mancano le alternative e il lavoro, ma c’è anche un sentimento di comunità tra coloro che praticano questo singolare sport, un’unione speciale e tutta maschile. Fatta anche di bevute e chiacchierate, la quintessenza dell’amicizia virile.
Racconta il regista, al suo esordio nel documentario, ma noto nel mondo del videoclip con lo pseudonimo di Dandaddy: “Ho incontrato i tuffatori cinque anni fa, durante una vacanza in Bosnia. Li ho visti inizialmente come li vedono tutti i turisti che si recano a Mostar, come l’attrazione della città, ma poi ho sentito la necessità di comprendere gli esseri umani. I tuffatori di Mostar sono presenti in tanti filmati dei turisti, negli speciali dei tg e nelle puntate delle trasmissioni di viaggio: ma si tratta di visioni solo esteriori, che mi hanno spinto a entrare in quella comunità per comprendere chi fossero veramente quegli uomini. Mi hanno accettato come uno di loro, così mi sono ritrovato a raccontarli dall’interno, girando il più possibile, nel corso degli ultimi quattro anni. Mi sono apparsi come un vero simbolo della loro città e del loro paese, uomini che portano nella loro mente e nei loro corpi i segni delle generazioni e della loro storia”.
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