Dal punto di vista di una produttrice, qual è la situazione dei finanziamenti al cinema italiano, e che cosa andrebbe modificato?
Io faccio la produttrice da meno di dieci anni, prima ero organizzatrice di produzione, e non considero scontato il fatto di continuare a fare questo mestiere per sempre, anche e soprattutto per quella che è la questione dei finanziamenti. Il campo di azione di chi fa produzione nel nostro Paese, oggi, è viziato da una serie di cattivi comportamenti che poi, per ragioni di pura sopravvivenza, costringono a praticare delle ulteriori scorrettezze. E prendere una posizione troppo netta e battagliera significa essere costretti a pagare un alto prezzo. Un esempio tipico, che mi tocca in modo particolare perché ne sto vivendo le conseguenze sulla mia pelle, con l’ultimo film che ho prodotto, Due come noi, non dei migliori di Stefano Grossi, riguarda la famosa questione delle carature (ovvero la partecipazione ai costi di produzione da parte del cast in misura non inferiore al 30 per cento del proprio compenso). La legge prevede, per gli articoli 8, carature per il 30% sui compensi di chi partecipa nei ruoli tecnici e artistici del film, e l’ammontare lordo globale della cifra così messa insieme non dev’essere inferiore a 1/3 del budget. Tuttavia, quando poi si va a contabilizzare gli incassi, chi ha rinunciato a parte del proprio compenso per contribuire alla realizzazione del film non viene considerato come coproduttore: le sue sono quote sugli utili netti, che vengono saldate solo nel momento in cui produttori e coproduttori sono rientrati del loro investimento, mentre chi partecipa alla coproduzione a pieno titolo inizia a recuperare i suoi soldi sin dalla prima lira utile. E all’ingiustizia lampante di questo sistema si aggiunge il paradosso che il produttore, per non pagare la troupe al di sotto dei minimi sindacali proprio per via delle carature, deve aumentare a sua volta i compensi. Sicuramente si tratta di una battaglia che potrebbe essere vinta sul piano legale, ma farlo significherebbe probabilmente per me non riuscire a produrre un altro film.
Questo accade anche perché oggi è quasi impossibile finanziare un film partendo dal mercato.
Il mercato italiano è malato, anche se io preferisco parlare di pubblico piuttosto che di mercato perché il pubblico è fatto di persone e il mercato è fatto di soggetti giuridici. In termini economici la stortura del nostro mercato sta nella sua definizione, tecnicamente parlando, di integrato, nel suo essere soggetto a una linea di continuità e controllo costante da parte delle televisioni. Sono le tv a controllare le sale, le distribuzioni e l’homevideo, e questo fa sì che il mercato italiano sia fatto su misura per entità molto più grandi che non il piccolo produttore. Se ci fosse una vera normativa antitrust le cose sarebbero diverse, ma bisogna dire che in Italia l’intervento del legislatore arriva quasi sempre troppo tardi, quando la Bestia è diventata enorme e abnorme, è cresciuta a dismisura, e implementare una normativa antitrust vera significherebbe porre in atto addirittura un colpo di mano. Oppure non si può fare nulla. Stando così le cose, oggi ottenere il fondo di garanzia rappresenta per un piccolo produttore l’ultima possibilità di non presentarsi, mettiamo, davanti a De Laurentiis con le pezze al culo. E sicuramente con questa Commissione nuova, nominata da Veltroni, le cose sono un po’ cambiate rispetto al passato, quando veramente regnava un clima pesante di corruzione e di compromesso. I 5 membri che la compongono sono delle personalità di alto livello intellettuale ma, per dire, non hanno pregiudizi nei confronti di un genere «leggero» come la commedia, tant’è vero che recentemente sono riuscita a farmi approvare un progetto di film brillante, anche se non comico. Oggi nei confronti della cinematografia italiana la Commissione del fondo di garanzia ha una responsabilità di linea editoriale, direi, quasi totale. Io, e con me molti produttori, sarei felice di poter fare a meno del sostegno dello Stato, ma non posso. E la campagna condotta nei mesi scorsi dalla stampa italiana, e in particolare da «L’Espresso», ha contribuito a mettere nero su bianco la situazione di chi oggi il cinema italiano lo fa: di quei tot miliardi, assegnati secondo la legge, al botteghino sono stati recuperati soltanto un 10%.
E di questo i produttori non hanno colpe?
No, anche noi produttori dobbiamo fare autocritica, e così gli autori. Non si può dare soltanto la colpa al mercato o alle televisioni. In Italia perdura ancora un clima di contrapposizione secca tra registi e produttori, in cui il produttore viene demonizzato dal regista in nome di ragioni artistiche indiscutibili che però a furia di non poter essere discusse diventano dogmatiche. Io vorrei fare un film insieme ai miei registi, partecipando senza prevaricare. Tanto è vero che per Due come noi, non dei migliori ho scelto un metodo di produzione sui generis. Ho detto a Stefano Grossi e ai capireparto: «Ecco, queste sono le risorse a disposizione, decidiamo noi come distribuirle». In questo modo l’impostazione produttiva è diventata una conseguenza dell’impostazione artistica del film e personalmente ne sono fiera. Vorrei poter adottare questo stesso sistema anche per quanto riguarda i miei progetti futuri, ma è chiaro che ci vuole un rapporto di stima e di fiducia forte con un regista per coinvolgerlo nella gestione del preventivo. Del resto, l’era del produttore ricco di suo, o che grazie al fare cinema si arricchisce, del produttore speculatore finanziario, è già finita.
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