VENEZIA – Un villaggio è il cuore pulsante di una società, per quanto piccola possa essere, ma pur sempre il polmone umano della vitalità di uno spazio, che significa storia, società, vita. Nell’Harverst di Athina Rachel Tsangari – in Concorso a Venezia81 – succede ci sia un villaggio senza identità, un tempo senza identità – “come una fantascienza nel presente” precisa l’autrice greca.
E poi lì, in quella terra senza nome, c’è un uomo, Walter Thirsk (Caleb Landry Jones), che dalla città s’è trasferito per dedicarsi all’agricoltura, e con lui Mr.Kent, amico d’infanzia del primo, e soprattutto proprietario di quelle terre, che portano con sé un senso di appartenenza per quella gente, ma – altrettanto – è vero esista un mondo esterno: la modernità incombe, la paura dell’altro e dell’ignoto disorientano.
Il film è anche un immersivo e simbolico faccia a faccia – letterale a tratti – con la Natura, dalle sconfinate distese della Scozia, ai fili d’erba che blandiscono le facce, alle carezze dedicate addirittura agli insetti. E poi, guardando, a più riprese, sembra di osservare un quadro, non un’inquadratura, ma un dipinto, e – come Tsangari spiega – “Bruegel ha avuto una grande influenza, così Rembrandt con l’idea dei grandi tableau vivant. Siamo stati osservatori della luce, anche di notte usavamo le torce: abbiamo ricreato tutto dando testimonianza e raccogliendo i doni di quella terra. Passando da un’immagine rinascimentale o pre-rinascimentale al cinema americano Anni ‘70, oscillando tra queste idee”.
Del romanzo di Jim Crace, Il raccolto, da cui il film è ispirato, la regista racconta le sia “piaciuto fosse su una persona – Walter – che non fa nulla, in una comunità innocente, talmente innocente da non capire il senso del potere. È una società nascosta, in una situazione pre-capitalista. È stato complesso adattare un romanzo dal punto di vista del dialogo interiore di Walter, una persona che non appartiene all’ambiente, con ha nostalgia di un passato che gli viene tolto, che sogna un futuro che non avrà, e vive un tempo in cui non si sente a suo agio. Il nostro gesto politico è sempre scegliere”.
Landry Jones sostiene: “siamo entrati in qualcosa di antico, che aveva già visto sguardi, vite e morti. Lì è uno spazio che ti chiede di far parte del processo creativo, o di andar via. Nei personaggi ci siamo immersi imparando cose che mai avremmo immaginato, come certe coreografie, e dimostrare chi siano i personaggi attraverso il movimento è qualcosa di particolare. Ci è stata data l’opportunità di esplorare e capire chi fossimo nel film”.
Ancora, l’autrice ricorda che “quando è arrivato Caleb si sporcava davvero le mani, per un’immersione nel personaggio: nel film c’è un aspetto documentaristico. Credo la cosa bella nel processo creativo non sia stata costruire il luogo, che era un terreno arabile invaso dalle pecore dopo l’enclosures act, ma abbiamo trovato questo luogo all’improvviso, scavallato una collina, ed è stato molto importante non costruire né invadere, ma co-abitare un luogo già esistente. È fondamentale il processo di creazione di un mondo sia realistico”.
Tsangari, nel tempo in cui s’attendeva l’annuncio di un suo altro film, aveva detto che stesse pensando a un Western, e lei conferma che “volevo lo fosse, in effetti… l’abbiamo fatto nel west della Scozia! Uno dei periodi che preferisco sono i film americani Anni ‘70, come quelli di Robert Altman, che mi ha sempre influenzata e crea situazioni mai definitive e complesse, con personaggi che perdono, circondati dalla forza della natura; e noi abbiamo qui esseri umani in mezzo alla natura, che però riescono anche a distruggerla”.
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