Sarà un Presidente o una Presidente? Forse lo sapremo tra poche ore, forse dovremo aspettare mesi in una ridda di ricorsi, studi legali affaccendati per le due parti, contestazioni di piazza e sulla rete. Hanno ragione i commentatori a dire che ogni volta parliamo, anche a sproposito, dell’elezione più importante di sempre, ma poche volte questa faccenda americana ha coinvolto così tanto chi la guarda da lontano e fa il tifo come a una partita di pallone.
In ogni caso faremo bene a non fidarci di quel che diceva nel lontano 1957 il candidato Lonesome Rhodes alias Andy Griffith in Un volto tra la folla di Elia Kazan: “La pensano come me, ma sono più stupidi di me, quindi devo pensare per loro”. In bocca a Donald Trump (ma anche pronunciata a mezza voce da Kamala Harris) questa frase si adatta, sinistramente, al corpo elettorale di oggi, dominato da slogan ad effetto, populismi a gogò e sostanziale disprezzo per “l’altra parte”. Eppure, se guardiamo con gli occhi del cinema la sequenza dei presidenti americani tra la metà del Settecento e appena ieri, ci accorgiamo che per tradizione la politica statunitense è stata più saggia degli eccessi dei suoi “comandanti in capo”. Perché nella nazione più democratica del mondo la battaglia politica è sempre stata intrisa di giochi sporchi (Dirty tricks), compromessi e interessi spiccioli, burocrazie renitenti al cambiamento e sostanziale prudenza dell’establishment. Sarà così anche ora?
Dall’alto del Monte Rushmore, reso celebre da Alfred Hitchcock in Intrigo internazionale, vegliano su tutto il mondo i Grandi Saggi: George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826), Abraham Lincoln (1809-1865), Theodore Roosevelt (1858-1919). Ma erano davvero diversi? Dalla morte del presidente federatore (un Lincoln disposto a mille compromessi pur di far valere la sua visione in Lincoln di Steven Spielberg e prima vittima del regicidio americano in The Conspirator di un illuminato Robert Redford), il cinema ce li ha raccontati tutti e soprattutto ha messo in luce l’infinito sottobosco di corruzione, crudeltà, aggiustamenti di chi le elezioni le prepara, manipola, indirizza ai vari livelli: dalla conquista dei singoli Stati al tempio – oggi violato – di Capitol Hill, fino alla Casa Bianca.
Queste elezioni capitano a ridosso di un anniversario pieno di profezie, valori simbolici e misteri irrisolti: l’uccisione del Presidente John Fitzgerald Kennedy a caccia della riconferma in un’assolata Dallas venerdì 22 novembre 1963. Si dice, non a torto, che quella data segna la fine dell’innocenza americana, una “linea d’ombra” a cui far risalire la consapevolezza che dietro la politica si celano sempre meno nobili interessi, giochi di potere di cui intuiamo solo il riflesso, campagne di disinformazione e discredito a volte letali. Per questo, nel titolo di questa riflessione, ci siamo rifatti all’augurio di Marilyn Monroe per il suo amante presidente, idolatrato come un’icona, pieno di umane debolezze e compromessi, ma capace di tutelare la sua immagine oltre la morte. Ce lo ha raccontato all’apice della gloria Roger Donaldson nella rappresentazione edulcorata di Thirteen Days (2000), ma il più kennediano di tutti gli attori, Kevin Costner, era già passato dal rango di consigliere del presidente allo scranno del procuratore Jim Garrison in JFK con cui Oliver Stone aveva provato nel 1991 a insinuare fondati dubbi sulla verità ufficiale di quell’omicidio politico.
L’ombra del delitto e del complotto è ben più antica nel cinema americano, basti pensare a The Manchurian Candidate di John Frankenheimer (1962) con Frank Sinatra e soprattutto a The Parallax View (1974) di Alan J. Pakula con Warren Beatty. Due anni dopo, lo stesso regista con diverso eroe (questa volta Robert Redford in coppia con Dustin Hoffman), affonda il coltello sul più controverso e impopolare dei presidenti, Richard Nixon in Tutti gli uomini del presidente. Siamo di fronte a un film spettacolare e militante, in cui la stampa recita nel ruolo del “Buono” mentre la politica veste i panni del “Cattivo”, come avverrà decenni dopo in The Post di un altro militante democratico come Spielberg.
Col senno di poi abbiamo dovuto imparare che la verità ha molte facce, se guardiamo alla politica, e il cinema ci ha impartito una lezione da ricordare proprio nel ritratto di Nixon che – non per caso – è il politico americano più frequentato sullo schermo. Basti riguardare un film dimenticato e antesignano di Robert Altman come Secret Honor (1984), il sottovalutato Nixon – gli intrighi del potere (1995) di nuovo firmato da Oliver Stone con un memorabile Anthony Hopkins, fino all’implacabile Frost/Nixon il duello (2008) di Ron Howard.
Siamo lontani dal sogno utopistico di Frank Capra (Mister Smith va a Washington con James Stewart), dall’idealizzazione del politico come Civil Servant (Henry Fonda, tormentato segretario di Stato in Tempesta su Washington di Otto Preminger); proprio la morte di Kennedy ha cambiato il senso dei valori: se la Hollywood buonista continuerà a confezionare “santini” come il presidente Bill Pullman di Independence Days o Harrison Ford in Air Force One, più spesso registi e produttori adotteranno la cifra al vetriolo della parodia e dell’ironia sarcastica, prendendo di mira tutti i livelli del potere, specie dopo che politica e spettacolo cominceranno a spartirsi la popolarità tra il presidente/attore (Ronald Reagan) e il Governatore/body builder (Arnold Schwarzenegger).
Ecco dunque sfilare in sequenza Warren Beatty con Bullsworth, Tim Robbins alias Bob Roberts nel film omonimo e profetico del 1992 (vale la pena di rivederlo in attesa dei risultati elettorali di martedì notte), George Clooney ne Le idi di marzo, fino a quel capolavoro di satira amara che rimane Sesso e potere firmato nel 1997 da Barry Levinson e tristemente presago dei guai privati di Bill Clinton.
Con il Presidente tutto cine-televisivo Frank Underwood di House of cards (in tv dal 2013 fino allo screditamento del suo alter ego Kevin Spacey) arriviamo alle soglie del martedì decisivo senza nessuna residua illusione: chiunque vinca il gioco della Casa Bianca gioca ormai con tutti i mezzi, anche i più pesanti. Ed è interessante che proprio lo spettacolo ci abbia accompagnati a questa data anticipando, interpretando, leggendo la realtà della politica senza il filtro del sogno o dell’utopia. Dal novembre 1963 tutto è cambiato. Ammettiamolo, in peggio.
Al Festival di Cannes, in programma dal 14 al 25 maggio, il ritorno di tre leggende. L’ultimo hurrah di una generazione fiorita negli anni ’70 e capace di imprimere un marchio indelebile alla cultura del secolo?
L’avventurosa storia della Metro Goldwyn Mayer, una fabbrica di sogni nata il 17 aprile 1924
John Milius si definisce “un anarchico Zen e un samurai americano” ed è in questo impasto di culture e contraddizioni che bisogna indagare per capire la grandezza e la segreta follia dello sceneggiatore di Apocalypse now
Alla riscoperta di Marlon Brando, l'uomo che sta in testa a ogni classifica degli attori più importanti di sempre