TORINO – Sono passati quasi trent’anni dalla sua prima volta a Torino ma Gus Van Sant non sembra essere molto diverso da quel ragazzo che nel 1988 mise piede per la prima volta nella capitale sabauda, per presentare Malanoche (il suo primo film) alla terza edizione del TGLFF (Torino Gay and Lesbian Film Festival). Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata portandosi dietro tanti e tanti film che lo hanno fatto diventare agli occhi di tutto il mondo uno dei più autorevoli rappresentanti del cinema indipendente, un esempio unico di come la sperimentazione può conciliarsi con la spettacolarità anche quando ci si ritrova di fronte alla gigantesca macchina di Hollywood, con la paura costante di rimanere inavvertitamente schiacciati da uno dei suoi mille ingranaggi (“la più grossa trappola in cui si può cadere quando si ha a che fare con gli studios è quella di trasformare il proprio progetto in quello che vogliono loro”). Eppure Gus Van Sant non si sente affatto un’icona anche se proprio questo è il sottotitolo che è stato scelto per la mostra a lui dedicata e approdata a Torino (sarà visitabile fino al 9 gennaio) dopo la “prima” parigina.
La mostra infatti è nata dalla collaborazione di Cinémathèque française, Museo Nazionale del Cinema e Cinémathèque de Lausanne. Un percorso che ricostruisce interamente la carriera artistica del regista americano – dalle polaroid degli inizi agli acquerelli, passando per i dipinti e i cut-up fotografici – che ha lasciato a bocca aperta lo stesso Gus Van Sant: “È incredibile essere qui. Avere una mostra con i lavori di tutta la tua vita fa un po’ paura: mi sorprende sempre sentire come le mie opere possano generare idee su quello che ho voluto rappresentare”. E a chi gli fa notare che i suoi film sono diventati anche oggetto di studio all’università risponde: “Questa cosa mi imbarazza, mi innervosisce pensare di essere ‘insegnato’, perché credo molto di più nell’intuizione che nello studio. Ma non vale per tutti la stessa cosa. A questo proposito ci tengo a raccontare un episodio della lavorazione di Belli e dannati. Eravamo all’inizio e stavo cercando di spiegare ai miei due attori, Keanu Reeves e River Phoenix, i loro personaggi, l’atmosfera che ci sarebbe dovuta essere in questa pellicola. Per aiutarli consigliai di leggere il libro City of Night, il romanzo d’esordio di John Rechy. Keanu Reeves il giorno dopo si presentò sul set con il libro e altri cinque o sei volumi sullo stesso argomento, mentre River Phoenix mi confessò subito che una pagina gli era bastata. Nonostante la preparazione completamente dissimile furono bravissimi entrambi. River Phoenix in particolare fu straordinario nell’amalgamare ciò che apparteneva alla sua esperienza a quello che era il vissuto del suo personaggio. Lui era così, istintivo, animalesco e io mi sento molto simile a lui”.
Quando si parla di cinema Gus Van Sant è un fiume in piena: racconta di quando per la prima volta vide Quarto potere di Orson Welles che fece nascere in lui la passione per il grande schermo (“vidi quel film una ventina di volte e da quel momento in poi ho pensato che il cinema avrebbe fatto parte per sempre della mia vita”), e di quanto si vergognò quando davanti a Pier Paolo Pasolini, conosciuto in Italia nel 1975 durante una laboratorio scolastico, non fu capace a raccontare quello che avrebbe voluto fare come regista: “gli dissi che avrei voluto fare con le immagini quello che le parole sapevano illustrare in letteratura. Pasolini restò zitto e successivamente capii che il cinema per lui era un modo di narrare completamente diverso da quello letterario. Non credo quindi che si fosse fatto una grande opinione della mia domanda e mi sentii un po’ stupido”.
Il futuro di Gus Van Sant per i prossimi anni è già nettamente tracciato e il regista ha le idee molto chiare: “Sto lavorando da parecchio tempo a una serie tv che racconta la storia di tre attivisti dei movimenti per le libertà civili. Non è la prima volta che lavoro per la televisione ma in questa occasione mi rendo conto che è tutto diverso: infatti ho passato gli ultimi mesi a documentarmi su tutte le serie tv che esistono e che abitualmente non seguivo. E una cosa mi è molto chiara: oggi per un regista sul piccolo schermo c’è maggiore libertà di quanta se ne possa trovare nel cinema, dove i prodotti o sono blockbuster con un sacco di investimenti e le sceneggiature di conseguenza bloccate oppure sono piccoli film indipendenti che poi faticano a circolare. Non è un caso che molti registi che non sopportano questa aridità della produzione cinematografica si siano riversati in televisione e quindi sono ben contento che il mio prossimo progetto sia When we rise, una serie tv che sarà trasmessa nei prossimi mesi dalla Abc e che mi è arrivata già scritta, ma che mi ha permesso di sviluppare un’altra idea a cui sto lavorando da un po’. Inoltre ho in cantiere un film su John Callahan, fumettista disabile di Portland scomparso sei anni fa”.
Alla viglia delle elezioni presidenziali non poteva mancare una domanda sull’attualità politica americana: “Lo so, che volete sapere cosa penso di Donald Trump. Ovviamente penso tutto il male possibile. Sarebbe una calamità se vincesse. Mio padre dice che è sicuro che questo non accadrà. Ma io non ne sono così certo. In questi casi, si può dire l’ultima parola solo quando le cose sono avvenute. E prima bisogna lavorare perché il peggio non accada”.
Come abbiamo detto, Gus Van Sant ritorna a Torino. “L’ho trovata molto cambiata e la Mole Antonelliana, dove ha sede il Museo del Cinema mi sembra la fabbrica di cioccolato del film di Tim Burton. Ma soprattutto adesso è una città nota in tutto il mondo: quando venni nel 1988 l’hostess della compagnia aerea aveva capito che volessi recarmi a Reno nel Nevada…”. E dopo averlo sentito parlare tra i presenti non c’era nessuno dubbio: il vero “genio ribelle”, oltre a Will Hunting, è proprio lui, Gus Van Sant.
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