Tra i tanti riferimenti che sorgono spontanei, tutti altissimi, c’è Silence di Martin Scorsese ma anche Fitzcarraldo di Werner Herzog per questa saga western che mette a dura prova la fede cristiana attraverso un percorso di esplorazione di un territorio inospitale, estraneo e impervio che sembra corrispondere ai tormentati paesaggi interiori del protagonista, pastore protestante. Una “terra di Dio” che finisce per rivelare il silenzio di Dio. O forse l’incapacità dell’essere umano di ascoltarne davvero la voce al di là delle formule rituali.
Godland di Hlynur Pálmason – visto a Cannes nella sezione Un Certain Regard e ora in sala dal 5 gennaio con Movies Inspired, designato dal SNCCI come Film della Critica – non lascia indifferenti. Per molti motivi. E’ un film sul linguaggio delle immagini, in questo caso la fotografia pionieristica (con l’uso del collodio umido), ma anche sulla colonizzazione di un paese, sull’incomunicabilità, sul tentativo di entrare in contatto profondo tra esseri umani.
Siamo alla fine dell’Ottocento e il giovane pastore danese Lucas (Elliott Crosset Hove) viene inviato in Islanda, all’epoca sotto il regno di Danimarca, per costruire una chiesa. Appassionato di fotografia, porta con sé una pesante e complessa attrezzatura per documentare quelle terre e i suoi abitanti (e la prima idea del film nasce proprio dal ritrovamento di sette foto dell’epoca accanto al cadavere di un prete).
Hlynur Pálmason, regista dalla doppia identità, danese e islandese, costruisce un film duplice fin dal doppio titolo: Volaða Land in islandese e Vanskabte Land in danese, due espressioni che significano “terra malformata”. L’Islanda è questa terra estrema, terribile e bellissima, dove non crescono gli alberi: vulcani in attività, cascate vertiginose e ghiacci perenni mettono costantemente alla prova l’essere umano, la sua stessa sopravvivenza. Anche attraversare un corso d’acqua può riservare pericoli mortali. “Il titolo del film – spiega l’autore – è ispirato a una poesia di Matthías Jochumsson, un poeta islandese che studiò in Danimarca per poi ritornare successivamente con la sua famiglia in Islanda. Dopo aver trascorso un inverno terribile, scrisse un’invettiva o un ‘poema d’odio’ contro l’Islanda, intitolata appunto Volaða Land. In seguito venne aspramente criticato e fu obbligato a scrivere una contro-poesia in cui elogiava la bellezza e le meraviglie di questo paese. Forse il prossimo film che realizzerò dovrà essere una sorta di contro-poesia, in cui mi farò trasportare dal nazionalismo”.
Godland dura quasi due ore e mezzo ed è diviso in due parti: nella prima assistiamo al tortuoso viaggio a cavallo, faticoso e per qualcuno mortale. Lucas non comprende la lingua dei suoi accompagnatori e sembra non riuscire più a comunicare neanche con Dio, la sua preghiera è sempre meno un linguaggio razionale e sempre più un’invocazione febbrile e sconnessa. Con l’arrivo a destinazione, in seno a una piccola comunità di danesi, inizia la seconda parte in cui Lucas viene messo a confronto con la meschinità e la piccolezza del suo animo. Ingaggia una serie di duelli, anche fisici, con altri personaggi, soprattutto l’islandese Ragnar (Ingvar Sigurðsson) e Anna (Vic Carmen Sonne), verso la quale sembra nutrire un interesse romantico, la ragazza è inseparabile dalla sorella minore Ida (la figlia del regista, Ída Mekkín Hlynsdóttir) che è una sorta di osservatrice acuta di tutta la vicenda: è lei a coprire l’occhio di una gallina mentre un’altra gallina viene uccisa da sua sorella, gesto di pietà forse inutile ma profondamente in sintonia con il sentimento della natura.
L’autore, al suo terzo film, si ispira chiaramente ai modelli del westen ma cerca – e raggiunge – una dimensione meditativa e spirituale, tipica del cinema nordico, alla Dreyer. “Il film – racconta Hlynur Pálmason – è stato scritto e pensato per essere girato nei luoghi in cui vivo”. In particolare alcuni spunti di osservazione, come l’immagine del cavallo in decomposizione, provengono dall’esperienza diretta: “Era il cavallo di mio padre e l’ho filmato per oltre un anno sul campo del nostro vicino. Le vedute del ghiacciaio sono state realizzate per oltre due anni in un luogo dove, a fine estate, raccogliamo funghi. Il primo accampamento che si vede nel film è quello in cui, durante l’inverno, peschiamo le trote nel ghiaccio. La maggior parte delle location sono posti che ho visitato più volte e che lentamente hanno iniziano ad affiorare nella mia sceneggiatura”. Significativa la scelta del formato, 1.37:1 (la magnifica fotografia è di Maria Von Hausswolff): “Era quello che meglio si adattava alle mie esigenze. I primi piani dei volti sono magnifici, mentre, impiegando il formato più ampio, avevo cominciato ad evitare di avvicinarmi troppo ai soggetti. Credo inoltre che il mascherino nero crei un taglio più netto quando si passa da un’immagine all’altra e ciò aggiunge maggiore carattere ad ogni cambio di inquadratura. Il frame nero con gli angoli arrotondati ammorbidisce oltretutto l’immagine e le conferisce una splendida forma femminile quando questa si avvicina ai bordi. Il formato della pellicola è molto simile a quello delle fotografie di Lucas”.
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