CANNES – Alexander Payne torna a Cannes dopo 11 anni (A proposito di Schmidt, 2002), con il commovente Nebraska, dramedy on the road su un rapporto tra padre e figlio ambientata nei posti più reconditi, periferici e marginali degli Stati Uniti, ben lontani dal ‘Bling-Bling’ che in questo festival, tra Sofia Coppola e Il Grande Gatsby, ha fatto la parte del leone.
L’ottantenne rimbambito Woody (Bruce Dern) vive con la moglie grassoccia, cinica e un po’ laida, a due passi dai figli più grandi. Convinto di aver vinto un milione di dollari da una cartolina promozionale evidentemente fasulla, convince suo figlio (Will Forte) a portarlo a Lincoln, a oltre 2000 chilometri, dove si aspetta di poter ritirare il premio. Il ragazzo sa che non c’è nulla ad attendere l’anziano genitore, ma acconsente per non disilluderlo e approfittare per trascorrere un po’ di tempo insieme. Sulla strada passano per Hawtorne, loro paese d’origine dove, per una serie di coincidenze, si sparge la voce della presunta vincita. Tutti i conoscenti di Woody fanno di tutto per ingraziarselo, sperando di ottenere qualche briciola del malloppo, ma appena scoprono che la vincita non esiste, si trasformano in serpi pronte a sputare veleno sul povero vecchio e sulla sua famiglia.
Il film è girato in bianco e nero e con budget limitato: “L’ho sempre immaginato così – dice il regista – chiaramente non è il modo più commerciale per fare le cose, ma ne ho discusso con la Paramount e loro hanno accettato. Mi hanno detto che non volevano spenderci tanto ma che mi avrebbero dato comunque tutto il necessario per realizzarlo, e l’hanno fatto. Diciamo che il formato si prestava bene a ritrarre lo stile di vita austero dei personaggi. Niente male come risposta, eh? Mi sono ispirato a Paper Moon, che è uno dei miei film preferiti, ma anche a L’ultimo spettacolo – continua – Ho finito il film solo venerdì scorso, quindi io stesso imparo molte cose sulla pellicola proprio attraverso le vostre domande. Ogni film appartiene alla sua epoca: questo è il film della malinconia, della depressione. Avete presente tutti i pannelli pre-edilizi che ci sono nella pellicola? Non li ho messi io, c’erano per davvero. Si tratta di una visione molto personale dello sceneggiatore Bob Nelson, che ha vissuto un’esperienza simile a quella che racconta. Ed è venuto a cercarmi proprio perché io vengo dal Nebraska, anche se specificamente, abitavo in un’altra zona. D’altro canto, sono solo il regista. Che ne posso sapere del senso ultimo dietro al film?”.
“Certamente – afferma Bruce Dern, che in conferenza è accompagnato anche dalla celebre figlia Laura – mi sono sentito molto malinconico quando ho letto la sceneggiatura. Ho lavorato per un sacco di registi, da Hitchcock a Coppola, e bisogna sentirsi piuttosto sicuri per prendersi dei rischi come questo. In fondo, l’ultima volta che un essere umano mi ha visto sullo schermo era 25 anni fa, con un altro Bruce, Willis, in The last man standing. Fatto sta che Payne mi ha ispirato fiducia, mi ha preso tra le sue braccia, e ha fatto la magia. E’ uno che non ti ordina di fare le cose, ti chiede di farle e ti spiega come.
E’ anche un film sull’illusione e la disillusione. “Il mio personaggio – spiega ancora Dern – non è uno stupido. E’ solo una persona che crede a quello che gli si dice, l’America ne è piena. Ed è anche un soldato, ha fatto la guerra e difeso il proprio paese in nome di questo”.
“L’età – conclude Payne – spesso e volentieri contribuisce a privare le persone della propria dignità. In questo caso l’amore del figlio per il padre consiste in questo: impegnarsi per far sì che lui possa recuperarla. Donargli, almeno per un istante, la vita che ha sempre voluto”.
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