Un giovane pubblico ministero nella Germania del 1958, quella della rinascita e del miracolo economico, un paese che vuole chiudere gli occhi sul passato e superare l’umiliazione della sconfitta, riapre il caso Auschwitz, deciso a portare in tribunale con l’accusa di omicidio quei criminali che molti, il cancelliere Konrad Adenauer per primo, vorrebbero lasciare indisturbati nei loro nuovi commerci e affari per “guardare avanti”. Un personaggio di fantasia, questo Johann Radmann, protagonista de Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, dietro il quale c’è una figura storica reale, quella del pubblico ministero generale Fritz Bauer (nel film lo interpreta Gert Voss, grande attore tedesco scomparso nel 2014). Bauer era un giurista di origine ebraica che dedicò tutta la sua vita a perseguire gli assassini nazisti e che fu coinvolto anche nella cattura di Eichmann da parte del Mossad (mentre il dottor Mengele viveva indisturbato in Sudamerica dove morì annegato).
Il processo di Francoforte, che sarà alla fine celebrato nel 1963, portò in aula 211 testimoni sopravvissuti alle atrocità del campo di sterminio e 19 imputati, tutti membri delle SS con diversi gradi: 17 di loro vennero condannati, ma soprattutto le nuove generazioni conobbero finalmente ciò che era realmente accaduto nei lager che molti consideravano “campi di protezione”, quasi tutti poi aderivano alla giustificazione per cui i soldati avevano solo obbedito agli ordini.
A parlarci di questa vicenda di cruciale importanza storica per la Germania è un’opera che in Italia uscirà il 14 gennaio con la Good Films, proprio in contemporanea con l’annuncio delle candidature all’Oscar. Il labirinto del silenzio infatti è stato scelto per rappresentare la Germania nella categoria del miglior film straniero. Una scelta che ha fatto notizia, sia per i temi trattati, ancora fortemente urticanti per l’opinione pubblica tedesca, sia perché a dirigerlo c’è un italiano, sia pure cresciuto in Germania dall’età di 4 anni, come Giulio Ricciarelli. Attore, produttore, autore di cortometraggi (uno dei quali, Vincent, molto premiato) qui alla sua opera prima, ha scritto il film insieme all’austriaca Elisabeth Bartel, mentre nel ruolo del protagonista, il giovane pubblico ministero Johann Radmann c’è Alexander Fehling, attore famoso in patria che abbiamo visto anche in Bastardi senza gloria di Tarantino.
Sorprende vedere che i tedeschi, negli anni ’50, non sapevano neppure cosa fosse Auschwitz.
È proprio così. E oggi è la storia del processo di Francoforte ad essere sconosciuta tranne che agli storici. Lo era anche per me, che sono cresciuto in Germania. Il film racconta proprio questo cambiamento di prospettiva: per questo abbiamo scelto un giovane protagonista, ignaro di tutto e non coinvolto. E per questo Fritz Bauer, dall’alto del suo incarico politico, aveva affidato il caso a pubblici ministeri molto giovani, che non avevano avuto un coinvolgimento personale nel nazismo.
Il labirinto del silenzio è un film di finzione, con impianto drammaturgico tradizionale. E tuttavia attinge a materiale storico documentato con grande precisione.
Ci siamo basati sui documenti della Fondazione Bauer. Nessun dettaglio storico è inventato, molte delle frasi che vengono pronunciate sono esatte parola per parola. Una delle fonti di ispirazione è stata un libro della Fondazione, Nel labirinto della colpa: da lì viene il titolo del film, ma abbiamo evitato il concetto di “colpa” e preferito quello del “tacere”, perché era quello che accadeva.
I tedeschi oggi conoscono Fritz Bauer?
È un eroe dimenticato, non gli è stata dedicata neanche una via, una piazza e la sua storia non viene insegnata a scuola. Negli anni ‘50 si tentava di dimenticare l’olocausto, oggi si dimentica quanto sia stato complesso e doloroso ricordare, anche se ormai la cultura della memoria è un dato acquisito per noi.
Il giovane procuratore è ossessionato dalla figura di Mengele e dai suoi terribili esperimenti sui gemelli. Vorrebbe a tutti costi portarlo a processo e arriva a dire che Mengele “è” Auschwitz.
È facile odiare il male assoluto e Mengele lo incarna. Ma è importante capire che tutti quelli che hanno partecipato, che non hanno detto no, sono Auschwitz, come gli dice Fritz Bauer. Del resto il protagonista, che all’inizio ha un atteggiamento di drastica difesa della legge, si trova via via a rendersi conto della complessità del passato. In particolare quando scopre che anche suo padre, che considerava un antifascista, aveva avuto la tessera del partito. Condivido l’atteggiamento di umiltà che mostra nel momento in cui si reca ad Auschwitz di persona e si rende conto di non sapere cosa avrebbe fatto lui stesso.
Perché è così importante ancora oggi parlare di Auschwitz?
Perché ognuno nella sua vita presente possa cercare di fare la cosa giusta, di riflettere sul tema dell’azione e della scelta. Quando la Germania ha compiuto questo processo di autoanalisi è rientrata nel consesso dei popoli.
Il film ha avuto successo nel suo paese, ma non ha temuto neanche per un attimo un effetto di saturazione per i temi dell’Olocausto così spesso rappresentati dal cinema?
Come dicevo è e resta importante coltivare la memoria. Anche se la colpa è individuale e non si trasmette da una generazione all’altra, la responsabilità rimane. Come tedesco mi sento comunque coinvolto e non posso dire “oggi siamo un popolo diverso e non ce ne frega più niente”.
Cosa pensa delle tendenze neonaziste che riaffiorano in Germania, del ritorno a Mein Kampf di alcune frange?
Non si può impedire di leggere Mein Kampf, ma negare l’Olocausto è oggi un reato in Germania. E facciamo di tutto per tenere viva la memoria.
Nel film lei mostra tutte le difficoltà che Radmann deve superare: l’ostilità, l’ironia, a volte le accuse di essere un traditore.
Ci furono molte lettere anonime e minacce all’epoca, anche se non si arrivò all’aggressione fisica. Non ho inventato niente, tutto quello che si vede, come dicevo, è storicamente accertato, è un tema troppo delicato.
E ha avuto contestazioni oggi?
Mi sarebbe piaciuto, poteva fare notizia, ma il mondo del cinema e l’estrema destra sono due universi che non comunicano.
Cosa pensa del romanzo di Timur Vermes Lui è tornato che immagina il risveglio di Hitler nella Berlino contemporanea.
È un lavoro coraggioso, ma personalmente non potrei mai fare una commedia su Hitler.
Cosa si aspetta dall’Oscar? Ci spera?
L’Oscar è un mito, ma un film è un film, non c’è una competizione come quando corri i cento metri, quindi provo a non pensarci troppo. Il giorno in cui si decideva che film mandare ero al mare con il telefonino spento.
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