Dal diploma al Teatro Stabile di Torino di Luca Ronconi all’esordio sul palcoscenico in Roman e il suo cucciolo di Alessandro Gassmann, che poi lo ha diretto anche nella sua opera prima Razzabastarda. E ancora, Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, Il capitale umano di Paolo Virzì, passando per Non è un paese per giovani di Giovanni Veronesi e Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa. Giovanni Anzaldo, nato a Rivalta di Torino, classe 1987, ha capito di voler recitare già da bambino, anche se “questo è un mestiere che si comprende giorno per giorno”, racconta a CinecittàNews.
L’attore – che a metà aprile sarà sul set in Sicilia del nuovo film di Roberto Andò, L’abbaglio, sulla spedizione dei Mille – è tra i protagonisti de La seconda vita, scritto e diretto da Vito Palmieri, attualmente nei cinema (distribuito da Articolture e Lo Scrittoio) dopo la presentazione in anteprima al Bif&st 2024. Nel film interpreta Antonio, un giovane fabbro, estremamente timido e chiuso, che vive con il padre (Nicola Rignanese) in un piccolo paesino dell’Italia. L’incontro con la giovane Anna, interpretata da Marianna Fontana, che dopo anni in carcere cerca di ricostruirsi una seconda vita, sarà anche per lui una possibilità di rinascita.
Giovanni, come hai lavorato sul personaggio di Antonio?
Vito aveva in mente un ragazzo con una certa timidezza. E sono partito proprio da quella chiusura per costruire il personaggio. Antonio è un giovane che vive in un paesino, dove vedi con un certo occhio lo straniero, il forestiero. In una cittadina non c’è sempre quel senso di accoglienza che ci dovrebbe essere. Quando Antonio incontra Anna, si chiede chi lei sia. Ha un timore incredibile, poi in qualche modo si apre, fino a che non scopre il suo passato.
Antonio rappresenta una seconda vita per Anna.
In realtà, anche Anna lo è per lui. È una nuova possibilità per Antonio, di vita, di rinascita, di felicità. Il padre nel film gli dice: “Tu devi decidere, o rischi di essere felice oppure sei tranquillo come dici tu. Però scegli”. Quando Antonio conosce il passato di Anna, prende le distanze da quello che ritiene pericoloso per lui proprio perché vuole “solo stare tranquillo”. Ma è vero che per scoprire una possibilità di felicità non puoi avere il freno tirato. È così anche nel mestiere che faccio.
Anche tu da ragazzo eri come Antonio?
Sarei potuto essere così, se fossi rimasto nella cittadina da un migliaio di anime in cui sono nato. Ma non ho mai reagito con chiusura di fronte ai forestieri. Perché sono cresciuto con dei genitori siciliani che si sono trasferiti al nord per cercare un futuro migliore e si sono sentiti loro stessi degli stranieri.
Quando hai scelto di fare questo mestiere?
L’ho capito presto, anche se continuo a capirlo ancora oggi, ogni giorno che lo faccio. Alle elementari molti coetanei stavano davanti alla televisione. E, in maniera forse narcisistica, l’unico modo per essere guardati poteva essere entrare dentro la tv. E così dopo le superiori, sono andato a Torino per studiare al Teatro Stabile e da quel momento è iniziato tutto.
E cosa ti dà la spinta per continuare a farlo?
Il motivo per cui faccio ancora adesso l’attore è perché sono interessato alla vita degli altri, non tanto per il mestiere in sé. Sono curioso, e mi diverte scoprire come sono fatte le persone. Certo, non è un lavoro semplice.
È più difficile fare l’attore oggi o lo è stato all’inizio?
Forse un tempo era più semplice. Io sono uscito dallo Stabile di Torino nel 2009 e mi sono trasferito a Roma. Già allora questo mestiere viveva una crisi. Nel cinema, purtroppo, molto spesso vediamo lavorare sempre gli stessi volti. Naturalmente attori di grande bravura, ma penso si potrebbe e dovrebbe rischiare di più.
I progetti sulle piattaforme hanno dato più possibilità agli attori?
Dipende dal progetto. Spesso è una tinta diversa dello stesso colore. C’è una grande compulsività di film e serie. Ma la quantità non fa la qualità, e troppe volte si scende a compromessi con gli algoritmi. Come dicevo prima, da noi lavorano sempre un po’ gli stessi. C’è un meccanismo che si ripetete, i produttori scelgono determinati attori per andare sul sicuro, quando bisognerebbe rischiare di più. A livello produttivo un nome noto o che vince premi è sicuramente un punto di forza, ma impedisce la crescita complessiva del sistema cinema e credo che anche gli spettatori siano stanchi di vedere sempre le stesse facce e di sentirsi raccontare sempre le stesse storie. Ci vuole più coraggio.
Torni sul set?
A metà aprile inizio le riprese a Palermo del nuovo film di Roberto Andò, sulla spedizione dei Mille di Garibaldi.
C’è un ruolo che consideri di svolta nella tua carriera?
Ho sempre difficoltà a rispondere a questa domanda. Tanti personaggi mi hanno dato molto. Forse quello che gli altri considerano di svolta nella mia carriera è il personaggio di Luca Ambrosini de Il capitale umano di Virzì (sette David di Donatello nel 2014, ndr). Sicuramente quel film è l’esempio di come un attore può risultare bravo e credibile, se diretto bene e con una sceneggiatura forte che vale.
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