GIFFONI – Giovanna Mezzogiorno il prossimo 9 novembre compirà 50 anni, di cui quasi 30 sono di carriera d’attrice, così ho provato anzitutto a intercettare e proporle 5 “prime volte”, per cercare di capire il suo sguardo sul cinema, che non sembra mai fisso e a senso unico ma, fortunatamente, lucido e curioso.
Giovanna, la prima volta, da bambina, da figlia di Vittorio, come guardava al cinema? E poi, la seconda, con il debutto ne Il viaggio della sposa (1997), che fase era del suo personale rapporto col grande schermo? Nel frattempo, passano alcuni anni e ci sono stati titoli come La bestia nel cuore, Lezioni di volo o Vincere: in quel momento, con che occhi emotivi guardava la Giovanna interprete? Finché non è arrivata la maternità, nel 2011, e lo sguardo lì che forma prende? Infine, di recente, passa dietro la macchina da presa con Unfitting: questo film breve, questa prima prova da regista, le ha fatto venir voglia di cambiare punto di vista?
Sono stata portata sin da molto piccola al cinema a guardare film piuttosto impegnativi, tipo 8 ½, La strada di Fellini, oppure, a dieci anni, Brazil di Terry Gilliam: sin dalle prime volte sul set, da bambina, ho subito ho capito quanta importanza abbia il mestiere di ognuna delle persone che lavorano a un film, infatti io sono qui a parlare con lei grazie a centinaia di loro che dietro di me hanno lavorato per realizzare i film; poi, Sergio Rubini su Il viaggio della sposa mi ha insegnato il set, lì ero in ‘fase zero’, perché avevo fatto soltanto teatro con Peter Brooke, e una tournée europea; io non sono mai una impositiva, faccio il mio lavoro tenendomi abbastanza a distanza dalle persone, non per snobismo, men che mai, ma per concentrarmi e portare a casa il risultato, e ho fatto dei film di cui vado molto fiera, penso anche a quello su Ilaria Alpi: li reputo delle bellissime avventure; con la maternità, poi, lo sguardo ha preso la forma di due bambini, lì lo sguardo sul cinema si interrompe un attimo, perché ho deciso di prendermi una pausa, tre anni, per stare con i miei figli, e lo rifarei assolutamente: quando ho ricominciato a lavorare ero emotiva, avevo un po’ paura, come di aver forse perso qualcosa, e invece è stata una cosa positiva, perché non bisogna mai essere sicuri di sé, ogni volta c’è un challenge, nessun film che hai fatto ti garantirà che farai bene anche quello successivo; infine, non ho cambiato punto di vista, perché sento di aver ancora tantissimo da dare alla recitazione: come dicevo, quando sono stata ferma per tre anni pensavo di aver perso delle cose, e questo è stato davvero positivo per mantenere la tensione giusta per ottenere dei risultati, ma quella pausa, quella nuova esperienza di vita, mi ha arricchita nel mio lavoro, perché quella che è la tua vita la porti sempre, un attore deve vivere, non può solo lavorare, altrimenti non ha elementi da portare in scena.
Lei è attrice, nasce attrice, ma dimostra versatilità con la regia, e con la scrittura più di recente: queste ultime due, sono piani B che danno senso a quello che qualche giorno fa, proprio qui a Giffoni, Pier Giorgio Bellocchio ha definito ‘polistrumentismo’ di un artista, o sono un correndo possibile al mestiere di interprete, che però per lei resta l’unico possibile?
Mi lascio aperta alle possibilità, perché è proprio la mia filosofia di vita, io non pianifico niente: certo, queste prime due avventure, queste due prime volte – scrivere e dirigere un corto – hanno richiesto lavoro e investimento di energie, per cui sì, rimango aperta ma sempre con la voglia più grande, l’amore più grande, per la recitazione.
38 sono i suoi titoli complessivi al cinema, in 30 anni circa di carriera: qual è il ruolo ‘più giusto’ che le abbiano proposto, o meglio chi è stato l’autore che più ha saputo cogliere di lei le sfumature evidenti e anche quelle più intime ma esplicabili; e c’è un ruolo che ancora nessuno ha intuito sarebbe nelle sue corde?
Parto dalla fine: non so quale sia un ruolo che spero mi propongano, spero però mi propongano qualcosa che non ho mai fatto; sono stata molto vista dal pubblico, come dalle produzioni e dai registi, come un’attrice prevalentemente drammatica, ma non è solo così, ho fatto delle commedie, ho fatto Notturno Bus o Amanda di Carolina Cavalli, in cui ho un piccolo ruolo ma in una commedia abbastanza esilarante nonostante lo humor nero di lei, ma spero mi venga proposto qualcosa di importante rispetto a qualcosa che non ho ancora fatto. Nella mia carriera, chi ha fatto emergere cose veramente intime di me è stato Marco Bellocchio con Vincere, perché per il ruolo di Ida mi sono ispirata a mia madre, che ha vissuto una vita letteralmente ‘per un uomo’, quindi io ho vissuto, in qualche modo da spettatrice, una grandissima storia d’amore.
C’è qualcosa, invece, che la mette a disagio nel suo mestiere? Qualcosa di suo personale interno, o qualcosa provocato dalle prassi esterne, che siano prima o durante le riprese, o nei momenti di corredo?
Penso che tutto quello che possa infastidire un attore che vuole semplicemente portare a casa la giornata sapendo di aver fatto il proprio lavoro sia una certa approssimazione, che c’è a volte sul lavoro; è quella distrazione che fa venire rabbia e frustra tantissimo, e questi due sentimenti sul set non dovrebbero esserci perché rubano energia, tantissima. Questo mi spaventa e mi dà fastidio.
Nella scrittura di Ti racconto il mio cinema s’apprezza la chiave di un libro che coniughi la personalità intima, non preponderante però, e lo spirito del saggio di cinema, con la trasmissione dello spirito dell’artigianato. Ecco, Cinecittà è la casa degli artigiani che riescono a costruire e dare anima a quel qualcosa di ‘incredibile’ che lei racconta: qual è il suo personale rapporto con questo luogo e con questo specifico spirito artigianale?
Il primo set che ho visto è stato a Cinecittà, mio padre girava con Depardieu e Nastassja Kinski, La lune dans le caniveau (1983), un film francese, che s’ambientava in una zona portuale, che all’epoca, in cui non c’era il green screen su cui poi puoi ‘appiccicare’ il Sahara, era fatto tutto manualmente: c’erano le scenografie con le prospettive, tutte in cartongesso, tutte dipinte a mano, e c’era ancora la pellicola; spesso, la sera con mio padre andavamo a vedere il girato del giorno e vedevo questa tavola sulla quale scorreva velocissimamente la pellicola, che veniva tagliata e reincollata con lo scotch, dai montatori, quella era davvero artigianalità del cinema, che è qualcosa che c’è ancora adesso, in un’epoca di effetti speciali e digitale, sì c’è ancora tantissima artigianalità; se non ci fossero i decoratori, gli attrezzisti, i costumisti, le sarte, io non sarei qui a parlare con lei.
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