LECCE – Giovanna Mezzogiorno ha appena compiuto 50 anni (9 novembre) e quasi sfiora il trentennale di debutto nel cinema: per Sergio Rubini è stata Porzia Colonna ne Il viaggio della sposa (1997), blocco di partenza di una carriera sul grande schermo che il Festival del Cinema Europeo di Lecce celebra con l’Ulivo d’oro alla Carriera, avendo anche dedicato all’attrice una rassegna che tributa i Protagonisti del Cinema Italiano.
Mezzogiorno, dopo aver incontrato una platea di 500 studenti, a Lecce si racconta riflettendo sul mestiere dell’attore, “un mestiere più difficile di quanto non si creda: io sono molto felice di questi anni, in cui non c’è stato solo cinema ma anche teatro, e per cui faccio un bilancio molto positivo. Mi sono scontrata con cose che non credevo potessero accadere a me, e non lo dico per presunzione ma perché ho seminato sempre molto bene: è un ambiente difficile, crudele, ma non importa, questo può aver peso per un periodo ma poi una va avanti e continua… L’importante è sapere che tutto quello a cui – nell’ambiente – viene dato un valore epico è polvere“.
E non è una riflessione che accende un faro sul femminile, perché l’attrice commenta di non fare “una distinzione così netta fra uomini e donne che sì è più facile vengano attaccate, ma non è vero che gli uomini non siano messi sotto giudizio: forse, un po’ più alle spalle?”.
Se con Unfitting è passata per un momento dietro la macchina da presa, senza mai pensare di abbandonare la via della recitazione, si fa però spazio la questione sul poter passare al lungometraggio. “Mi pongono la domanda, che mi mette in difficoltà con me stessa“, ammette lei, ma non ha dubbi sull’esperienza fatta: “mi è piaciuto dirigere il corto e avere a che fare col set in maniera più interattiva che da attrice; viverlo in maniera più diretta in tutti i suoi aspetti mi ha entusiasmata, in particolare la collaborazione con la fotografia e il montaggio; ora, da qui a un lungometraggio io non me la sento di dire se ne sarei capace, ma lo dicevo anche del corto; fino a ora la storia e la proposta adatte non ci sono: se ci saranno ci porremo la domanda”. Sulla regia e con riferimento al suo libro, Ti racconto il mio cinema, Giovanna Mezzogiorno ricorda che siano due progetti che “mi sono stati proposti… Dirigere è difficilissimo e scrivere è allucinante, ma quest’ultima cosa mi ha spinta la voglia di far capire agli adolescenti – che io non conosco – di comprendere cosa ci sia dietro il far vedere delle immagini, che sembra qualcosa di facilissimo, mentre c’è un mondo. Ho saputo che in Svizzera, il mio libro sia stato introdotto come testo scolastico: racconta quanto nel cinema sia ancora fondamentale l’aspetto artigianale, nonostante non ci sia più la pellicola che gira servono mani artigianali e coordinate, senza che nessun reparto travalichi l’altro. È complesso ma è un’orchestra affascinante”.
Dunque, la via maestra resta l’interpretazione e, dopo oltre decenni di set e palcoscenici “il personaggio che inseguo dopo quasi 35 anni non saprei rispondere quale sia ma, veramente importante, è sempre l’incontro con chi scrive e chi dirige: sento di poter dare ancora moltissimo, me ne accorgo sul set, ogni volta. E anche a teatro, come successo con Valerio Binasco”.
Nata in una casa di cinema, figlia di Vittorio Mezzogiorno e Cecilia Sacchi, la bambina Giovanna pensava “di fare altro, danza classica, studiata sin dai 4 anni, per insegnare alle piccoline. Non sono mai stata nemmeno invogliata ad avvicinarmi alla recitazione dai miei genitori, che mi hanno tenuta lontanissima… Io non frequentavo tantissimo i set, ricordo la prima volta: avevo 5 anni, era a Cinecittà“.
Passo passo, nel mestiere di attrice, Mezzogiorno s’è misurata anche con il concetto della “maschera” ma per lei recitare “è fare una cosa che non sia se stessi, farla con la più grande energia che si possa attingere dal profondo di sé”, anche quando non ha recitato i ruoli drammatici che più spesso le sono stati affidati: “la leggerezza l’ho sempre accolta, da Asini a Basilicata Coast To Coast, ma vero è che sia stata chiamata spesso per cose con un peso specifico notevole, più complesse, ma corrispondenti a grandi esperienza umane con i registi, da Bellocchio in là. Ho conosciuto mondi artistici particolari, mi viene in mente Wim Wenders, un panorama umano molto arricchente anche per me”.
I registi, coloro che creano con l’attore mondi e immaginari, universi in cui Mezzogiorno non si riguarda mai “pazza di gioia, però lo faccio per capire… Vincere – per esempio – è stato difficile, faticoso anche a livello fisico: il rapporto con Marco Bellocchio me lo sono dovuto sudare ma siccome io stavo dando il sangue chiedevo anche il suo, per uno scambio equo, ma anche creativo, al massimo. Non mi porto a casa i personaggi ma sempre, tantissimo, il rapporto umano di questi creatori, e Marco è un creatore di evocazioni”.
Con Cristina Comencini – di cui è stata interprete per La bestia nel cuore e Tornare: “c’è stato sempre un grande affetto, le voglio bene come persona, mi crea tanta tenerezza, ha una fragilità esposta, che mi ha sempre molto commossa: è bella e rara. Sono gratissima a Cristina, che mi ha dato la possibilità e il tempo per la recitazione. Una grande intesa artistica”.
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