Una stanza d’albergo e un set televisivo connessi nello spazio e nel tempo da Adalyn, una cantante con il volto di Greta Scarano che cerca di superare le sue ansie e la sua depressione. Who to love è il mediometraggio diretto da Giorgio Testi che mette in scena, come in una collezione di video musicali, l’omonimo album firmato dal cantautore britannico Dave Stewart, celebre per aver fondato gli Eurythmics, e dal gruppo musicale italiano Mokadelic, creatore di colonne sonore come quella di Gomorra – La serie e Romulus. Una moderna opera rock girata interamente a Cinecittà che, con pochissime soluzioni di messa in scena e facendo interamente affidamento al talento di tutti i talent in gioco, restituisce il mood sospeso e disturbante a cui i musicisti puntavano fin dall’inizio.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, Who to Love verrà proiettato il 24 febbraio nell’ambito della decima edizione del Seeyousound International Music Film Festival, alla presenza del regista Giorgio Testi. Considerato uno dei più importanti cineasti in ambito musicale del panorama internazionale, Testi vanta collaborazioni con nomi del calibro dei Rolling, Stones, The Killers, Gorillaz, Andrea Bocelli e Amy Winehouse. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo Harry Potter – Return to Hogwarts (2022), Mahmood (2022), Negramaro Back Home – Ora So Restare (2023) e Paolo Conte alla Scala – Il Maestro è nell’Anima (2023).
Giorgio Testi, cosa l’ha attirata di questo progeto?
Inizialmente avrei voluto fare un documentario, perché ero molto incuriosito da come Dave Stewart e i Mokadelic, così diversi tra di loro, avessero iniziato a collaborare durante la pandemia. C’era anche una barriera linguistica importante, perché Dave non parla italiano e loro non parlano inglese. È stata una vera sfida per loro.
Per fortuna la musica è un linguaggio universale
Esattamente e alla fine le emozioni, se sono cantante in una lingua o in un’altra, arrivano lo stesso. Sono riusciti a fare un disco bellissimo. Alla fine abbiamo deciso di trasformare questo progetto in qualcosa che restituisse il viaggio che ti fa fare il disco. Anziché concentrarsi su un music video di una traccia sola, abbiamo deciso di fare questa sorta di visual album che ti fa entrare ancora di più nei temi del disco.
Quali temi in particolare?
Nel disco emerge una percezione del tempo che, durante la pandemia, abbiamo perso. Per restituirla abbiamo giocato sul concetto di dissociazione dei personaggi fuori e dentro dal palco. Tra Greta e Dave si è creato un rapporto molto bello, anche perché lei parla molto bene inglese, è un’attrice, una cantante, una regista. Insieme hanno costruito questa narrativa-non-narrativa, anche perché tutto è molto astratto. La cosa più bella che arriva è che riesci ad entrare nella mente di questo personaggio, che a tratti è in scena, a tratti all’interno di questo appartamento, che fino alla fine non sai se lo sta immaginando o no. Il mio compito era semplicemente di restituire tutto ciò a livello visivo. È un progetto che mi ha riportato un po’ ai tempi del centro sperimentale. Era un’esperienza collettiva, ognuno diceva la sua. Filmando tutto in ordine cronologico, trovavamo insieme delle soluzioni a cui non avevamo pensato prima, azioni e idee di messa in scena che nascevano direttamente dall’ascolto del brano.
Possiamo dire che si tratti di un’evoluzione del concetto di video musicale?
I social in questi anni hanno reso i video musicali una cosa molto diversa dal passato, che ora hanno un ruolo meno importante, perché non è più l’unico mezzo per far arrivare il brano. Il regista deve mettersi a disposizione del brano piuttosto che rendere il video un’occasione per raccontare una cosa totalmente differente. Mi è piaciuto lavorare a questo progetto perché è stato quasi come fare un concerto, mi sembrava quasi di filmare un personaggio vero, grazie anche alla bravura di Greta. Lei entra nel personaggio e stai tutto il giorno con una persona che pensi sia quella. Ti dà proprio una sensazione da documentario.
È un grande momento per la musica sul grande schermo. Sia per i biopic (per ultimo quello su Bob Marley), che per i documentari, che per i film concerto (pensiamo a quelli di Beyoncé e Taylor Swift, ma anche ai suoi ultimo film sui Negramaro e su Paolo Conte). In che modo il rapporto osmotico tra queste due forme d’arte sta facendo del bene a entrambe?
È come se si stesse tornando a qualcosa che è sempre esistito. Negli ultimi anni è tornato il boom dei documentari, che prima erano il classico speciale televisivo sull’artista. Si è passato da togliere i progetti ai giornalisti per darli ai registi. I racconti di certi personaggi, improvvisamente, sono stati approcciati da un’angolazione differente. All’interno si racconta la stessa cosa, ma è vestita in una maniera diversa, più cinematografica. All’estero, bene o male, ci sono esempi di film storici, anche di Scorsese, o della serie di Asif Kapadia. C’è sempre stata attenzione. Non era qualcosa che sostituiva il concerto. In Italia sta entrando quest’idea: che il film sia un’estensione che non va a sostituire l’evento live. Il concept film visto al cinema è una cosa diversa dal concerto. Non c’è nulla di male nell’andare a vedere il concerto di persona e poi, qualche mese dopo, rivederlo in un altro modo in una sala cinema. Anzi per me è la chiusura del cerchio perfetta, perché non cosa più bella che stare seduto comodo, avere un ascolto perfetto e vedere giganteschi tutti i dettagli. Magari anche cantare in sala, come è successo con i Negramaro e con Paolo Conte. In Italia Vasco Rossi è stato un po’ il nostro Taylor Swift, perché ogni volta che va in sala Vasco fa numeri alti. Ora grazie alle piattaforme questi tipi di film sono tornati a dei budget importanti, che danno vita a delle opere molto molto belle. Il film premiato all’Oscar che ha fatto Asif Kapadia su Amy Winehouse e il film di finzione che uscirà a breve probabilmente saranno allo stesso livello. Il problema è che qui in Italia non abbiamo la cultura del documentario, per quanto sia brutto dirlo, e ci stupiamo di cose che all’estero esistono da sempre.
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