ROMA. “Un uomo va alla ricerca di coloro che, nei tempi e nei Paesi più diversi, hanno portato il suo nome – nome di persone famose o sconosciute, sparse nel mondo nell’erranza del popolo ebraico – e scopre che quei legami non sono soltanto legami vicini o lontani di famiglia, ma legami universalmente umani”. Così lo scrittore e germanista Claudio Magris sintetizza il senso del documentario L’orologio di Monaco, prodotto da Vox Produzioni e distribuito prossimamente da Istituto Luce-Cinecittà, che il regista triestino Mauro Caputo propone tra gli Eventi speciali.
Protagonista nonché voce narrante del film è lo scrittore, regista e drammaturgo Giorgio Pressburger, nato a Budapest nel 1937 e trasferito in Italia nel 1956 a causa dell’invasione sovietica dell’Ungheria.
L’idea del film nasce dalla raccolta di racconti “L’orologio di Monaco” dello stesso Pressburger e il trasferimento sul grande schermo del tema di quegli scritti non è stato abbastanza difficile. “Uso la prima persona, non sono totalmente io, ma per tre quarti sì. Il filo conduttore di quei racconti era una ricerca sulle parentele della mia famiglia, svolta 15 anni fa”.
Ricerca nata da quanto accaduto al figlio, allora studente di storia della filosofia che si era imbattuto con grande stupore con la scoperta che la madre di Karl Marx portava il suo stesso cognome. E’ in quel momento che Pressburger, venendo da una famiglia ebraica errante del Centro Europa che aveva sofferto la persecuzione e lo sterminio nazista, decide di indagare sulle parentele, facendo i conti con le vicissitudini degli archivi della comunità ebraica negli anni del nazismo e della guerra.
Pressburger, in quel momento direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, s’affida a un’azienda di ricerche genetiche e scopre così di essere parente di personaggi importantissimi che hanno segnato gli ultimi due secoli di storia come il poeta Heinrich Heine, il musicista Felix Mendelssohn, il filosofo Moses Mendelssohn, il filosofo e matematico Edmund Husserl, il compositore e direttore d’orchestra Bruno Schlesinger. “Da quella ricerca sono emerse altre persone più o meno note, o del tutto ignote, piccole vite e grandi vite. Cosa ha significato per me questa scoperta? Ha rappresentato una seconda nascita, perché finalmente ho capito di quale comunità umana facevo parte, di vivi e di morti. E da quel momento ho visto il mondo sotto un aspetto diverso”, spiega Pressburger.
L’orologio di Monaco, che s’avvale anche di immagini provenienti dall’Archivio storico Luce, dà conto di questa ricerca e delle parentele rintracciate, compresa quella con il regista e sceneggiatore Emeric Pressburger che insieme a Michael Powell ha realizzato numerosi film tra cui il famoso musical Scarpette rosse. Così tra i materiali di repertorio del documentario c’è anche materiale video originale del regista ungherese, concesso dal cineasta scozzese premio Oscar, Kevin Macdonald, suo nipote.
Pressburger nel documentario ci conduce per mano in quel territorio immateriale che è stata (ed è) la Mitteleuropa, attraverso una ricerca che s’intreccia tra presente e passato. Il viaggio ci porta in luoghi di Trieste evocativi e carichi di simboli e rimandi: il cimitero ebraico, la Risiera di San Sabba, la Centrale Idrodinamica di Porto Vecchio, la libreria Umberto Saba, lo storico Caffè San Marco. E ancora nel cimitero ebraico sotterraneo di Bratislava o nella vicina Slovenia o a Londra.
Il viaggio alla fine non si conclude ma conosce un finale sospeso, segnato dal pessimismo o meglio da un pensiero di Giambattista Vico che spesso tormenta l’intellettuale Pressburger: “Tutte le epoche torneranno e presto tutti gli uomini si rinchiuderanno di nuovo ciascuno nelle sue solitudini, com’era all’inizio degli inizi”. L’unica via d’uscita è che quella solitudine diventi un momento di riflessione s’augura il nostro protagonista del film.
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