VENEZIA – Si apre con una scena gioiosa e di grande libertà, uno spettacolo di artisti di strada. Un uomo mascherato da orso e dei bambini che suonano e raccolgono le offerte dei passanti, divertiti e partecipi. E’ Lubo, che racconta come questo sogno venga spezzato dalle leggi di un paese considerato civilissimo e democratico come la Svizzera, ma pronto a rapire i figli dei nomadi per collocarli in famiglie stanziali, una vera e propria pulizia etnica.
Giorgio Diritti è l’ultimo italiano ad affrontare il concorso veneziano con questo film ispirato al romanzo Il seminatore di Mario Cavatore (Einaudi), ambientato nella Confederazione durante il periodo bellico e con un protagonista, Lubo appunto, affidato a Franz Rogowski, inconfondibile per il suo volto irregolare e la parlata strana, che qui ha recitato anche in francese e italiano, oltre che nella lingua “segreta” degli Jenisch, tramandata solo oralmente.
Diritti, autore di opere come Il vento fa il suo giro sulle comunità occitane, L’uomo che verrà sull’eccidio di Marzabotto, e il recente e molto premiato Volevo nascondermi sulla figura di un grande outsider come il pittore Antonio Ligabue, stavolta costruisce un affresco su luci e ombre di un nomade, uno Jenisch nella Svizzera del 1939 e in avanti, a cui vengono rapiti i figli con lo scopo di ‘normalizzarli’ attraverso il programma Hilfswerk fur die Kinder der Landstrasse (“Opera di assistenza per i bambini di strada”) che rimase attivo fino al 1972. Rimasto solo, dopo che la moglie è morta nel tentativo di opporsi al rapimento dei bambini, riuscirà a disertare dall’esercito, prendendo l’identità di un ebreo austriaco (aleggiano i fantasmi del nazismo), amerà molte donne, fino a incontrare l’amore e il suo destino: nelle tre ore di un film dalla struttura romanzesca accadono tante cose e c’è anche un’evoluzione del personaggio, che finisce per assumersi le sue colpe.
“E’ un povero Cristo nel senso buono del termine, che fa l’artista di strada e che nella vita si trova a subire una cosa più grande di lui, una grande ingiustizia: vedere che i propri figli, mentre lui deve fare il militare nell’esercito elvetico che si prepara a difendere i confini dal rischio di un’invasione tedesca, vengano portati via solo perché è un nomade. Il suo modo di vivere diverso – dice Diritti – diventa una discriminante che poi scatenerà una catena del male di cui lui stesso diventa parte in causa”.
Lubo, in sala dal 9 novembre con 01 Distribution, ha un tema nobile e terribile, la denuncia dell’azzeramento dell’identità nei bambini, come in altro modo Rapito di Marco Bellocchio, film pur diversissimo ma che lo richiama. “Bellocchio ed io – argomenta il regista bolognese – abbiamo avuto una simile sensibilità. Conosco bene la storia di Edgardo Mortara e avevo anche pensato di farne un film tanti anni fa. Perché oggi si parla di bambini rapiti e riformattati? C’è come un allarme che risuona rispetto alle nuove generazioni. Abbiamo bisogno di affermare che l’uomo deve essere libero nella sua crescita, educato secondo parametri non condizionanti e castranti. Invece in queste vicenda c’è la totale rimozione di ogni legame familiare, è qualcosa di molto vicino alla dimensione della persecuzione razziale. L’abitudine a trasformare gli altri rischia di sfuggire di mano. Un esempio è quello del mondo social dove l’imitazione domina il processo educativo dei minori, l’altro esempio, più drammatico, è quello dei migranti che muoiono in mare”. Per Franz Rogowski, attore tedesco molto amato dal cinema italiano con titoli come Freaks Out e Disco Boy, il film è stato il viaggio di un uomo e di un popolo, “oggi 40mila Jenisch vivono in Svizzera”.
Uschi Waser, consulente storica Jenisch, si commuove nel raccontare: “Siamo ancora vivi, anche se sono passati tanti anni, ma 2000 bambini sono stati portati via, tra cui anche io. Sono diventata un’altra persona e questo pesa sui miei figli. Un bambino non contava nulla”.
“C’è la sensazione che la società si impantani sempre sulle stesse cose e che queste stesse cose rischiano di portare di nuovo a conflitti, guerre – prosegue Diritti – la scommessa che mi sembra abbastanza persa, è che negli anni ’70 ci faceva sperare in un mondo migliore. Oggi passati tanti anni c’è rassegnazione, quasi che la negatività, il male, l’indifferenza verso l’altro siano da accettare. Penso anche alla guerra in Ucraina, dopo il periodo di grande empatia e commozione per le immagini strazianti che ci arrivavano, adesso quasi c’è un’abitudine. Ed è secondo me il momento più drammatico: abituarsi alla guerra, vuol dire accettare anche la discriminazione nei confronti di qualcuno che un giorno possiamo essere noi”. Valentina Bellè, tra gli interpreti del film nel ruolo di una frontaliera italiana di cui Lubo si innamora, pensa alle “famiglie russe che hanno in casa bambini ucraini e percepiscono un sussidio statale”, anche quella è una cancellazione culturale.
E’ stato un film lungo e complesso da costruire, con location scomode e tempeste di neve. E uno dei produttori, Fabrizio Donvito, lo definisce “un film nomade”. Prodotto da Indiana Production (Fabrizio Donvito, Benedetto Habib, Daniel Campos Pavoncelli, Marco Cohen), Aranciafilm (Giorgio Diritti, Francesca Scorzoni), Rai Cinema (Paolo del Brocco), hugofilm features (Christof Neracher), Proxima Milano (Claudio Falconi, Alberto Fusco, Andrea Masera), Lubo è girato anche in Alto Adige, Trentino e Piemonte con l’apporto delle rispettive Film Commission.
di Cristiana Paternò
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