GIFFONI – Un nonno, vedovo e sull’orlo del suicidio, e un nipote, adolescente, appena orfano. L’ultima settimana di settembre – titolo di apertura di #Giffoni54 – è la storia di Pietro Rinaldi (Diego Abatantuono), ottantenne scrittore sulla via del tramonto, stanco dell’esistenza, anche per la vita personale ormai vuota. Si sente stremato e vuole solo mettere un punto finale: il giorno del suo compleanno è il prescelto per togliersi la vita. Se questa intenzione suona come una tragedia, un’altra, forse peggiore, s’abbatte su di lui e sovverte il suo piano: sua figlia (Roberta Mattei) viene a mancare, e con lei il marito, lasciando Mattia (Biagio Venditti), il nipote adolescente dello scrittore. Un rapporto, tra i due, di cui non c’è traccia pregressa, ma il destino adesso li ha messi sotto lo stesso tetto: comincia così un road movie, da Genova verso Roma, a bordo di una decappottabile e, strada facendo, non senza colpi di scena, questo viaggio cambia per sempre quella che sembrava la loro vita ormai scritta.
La storia – adattata dal romanzo di Lorenzo Licalzi – per il grande schermo è sceneggiata da Pippo Mezzapesa, Antonella Gaeta, Gianni De Blasi, quest’ultimo anche regista all’opera prima.
Gianni, rispetto all’idea di un pubblico come può essere quello di Giffoni, come si è posto per trattare due temi delicati come il suicidio e il rimanere orfano in adolescenza?
Era molto semplice cadere in una drammaticità banale. Era da contare avessimo un attore come Diego Abatantuono, che arriva principalmente dalla Commedia, ma altrettanto sensibile e intelligente, quindi capace di tenere in equilibrio ironia e tragedia, infatti la difficoltà era proprio tenere bilanciati questi aspetti; la strada che infine abbiamo perseguito è stata quella della semplicità, restituendo dei momenti di crisi e riavvicinamento non alla luce di episodi o fatti rocamboleschi, come potrebbe essere più abituale nei road movie, e così abbiamo trovato la nostra cifra. Ci sono scene morbide, per restituire una certa poesia, piuttosto che effetti speciali; abbiamo cercato una morbidezza payniana: Nebraska di Alexander Payne è stato uno dei film di riferimento, per la scansione temporale e, appunto, per la morbidezza della narrazione, per schivare qualcosa che potesse diventare superficiale o, paradossalmente, comico.
Abatantuono è un nonno molto particolare: un passato da creativo, ora in declino, e un presente molto pessimista. Su quali corde attoriali ha lavorato per far emergere la sua vis più drammatica e anche il suo lato più tenero? Avete pensato a lui da subito?
Lo scrittore del libro, quando ha saputo che sarebbe stato Abatantuono, ci ha confessato di aver scritto il romanzo pensando proprio a lui! Non avevamo in mente un disegno definito del personaggio, ma per me partire dal disegno vero e proprio è la maniera di trovare il centro psicologico. Poi, in fase di scrittura, è nata la possibilità di coinvolgere Diego, che ci ha permesso di pettinare il personaggio proprio sul tipo specifico di attore, pensando a Regalo di Natale e ai suoi film più drammatici e intensi, ma con l’aggiunta dell’età: Diego ha fatto ruoli densi ma in età più giovane, mentre la sorpresa del film è anche ritrovare un Abatantuono che trasferisce quell’intensità dei film autoriali per la prima volta nella parte di un nonno. Naturalmente, io un po’ lo temevo, ma poi abbiamo sviluppato un rapporto davvero bello; sin da subito lui era soddisfatto del girato, gli piaceva il mio modo di girare, io sono un po’ regista di scomposizione: mi piace preparare il découpage prima, studiarmi il movimento, il fuori campo se serva, faccio un ragionamento sullo stile. E così lui ha cominciato a fidarsi, riconoscendo un bel lavoro sull’impianto visivo. E’ un film medio piccolo, fatto però con il mio piccolo esercito del set, che attendeva il mio esordio, per cui sono davvero grato alla vita.
Abatantuono, rispetto a questo film, nelle prime immagini viste a Ciné 2024, ha dichiarato che ‘gli esordienti sono l’ideale, perché spontanei e senza vizi di forma’: in cosa pensa consista la tua personale spontaneità nella direzione degli attori e dietro la macchina da presa, e quali vizi di forma crede di essere riuscito a schivare?
Chi si affaccia agli esordi, parlo della classe ’79-’80, sono persone che hanno potuto fruire di un certo cinema europeo, un sapore che è mancato spesso al cinema italiano, perché abbiamo voluto fare un po’ gli americani, oppure c’è la nostra tradizione molto molto forte, che assolutamente sia benvenuta sempre: noi abbiamo cercato di fonderci con una grammatica visiva più europea, anche perché c’è un’Europa unita e c’è un cinema europeo. La regia è un lavoro, è tecnica e fisica, ma io sono anche un cinefilo e ho avuto la possibilità di potermi nutrire di tanto cinema e ho pensato che certo cinema europeo potesse essere trasferito anche nel nostro film italiano. Il film è mainstream, cosa che ci ha un po’ bloccato a tratti in scrittura, ma è anche questo parte di quello che si impara: io sono all’esordio, non conosco tutte le prassi, e l’approdo a un cinema libero al 100% credo sia qualcosa di graduale, infatti se forse fossi stato così libero sin da questo film, probabilmente avrei fatto molti più errori, per cui è giusto così.
Il suo esordio nel lungometraggio arriva sull’adattamento di un libro: perché ha scelto di debuttare con una storia non originale, che valore aggiunto è stato?
Il libro mi è stato proposto dal produttore, Attilio De Razza. L’ho preso in mano, poi l’ho dato in pasto a Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa, a cui sono legato da amicizia e scambio artistico. Tutte e tre abbiamo trovato che nel personaggio di Pietro Rinaldi ci fosse un cinema nelle nostre corde, un cinema che potesse restare in equilibrio tra ironia e titanismo, che costruisce personaggi mossi, anche incisi a tratti, però stando attenti a mantenerli in basso rilievo. Era pane per i nostri denti. E, seppur fosse su commissione, quello che ci ha convinti a buttarci nel progetto è stato davvero il personaggio principale. Poi le situazioni le abbiamo trasformate, ne abbiamo aggiunte e levate, rielaborandole, ma resta lo spunto cinico del personaggio di Pietro.
La sceneggiatura è appunto scritta a 6 mani, con lei ci sono Gaeta e Mezzapesa: quanto del vissuto personale di voi tre adolescenti, e quanto dei vostri nonni, avete portato nell’adattamento?
Le esperienze personali sono state fondamentali. Riflettendo sul set, anche dopo la scrittura quindi, ho constatato che le figure della mia età – ho 44 anni – non ci siano nel film, si salti la nostra generazione: ci sono i nipoti e i nonni, e il lutto della nostra generazione; questo punto di vista è assente, ma noi riusciamo a recuperare un pochino il sapore dell’innocenza che abbiamo perduto – l’adolescenza è stato il periodo più bello della mia vita, ogni giorni rimpiango di non avere 16 anni: ora c’è l’ansia di avviarsi verso l’età di mezzo; da padre, che io sono da 14 anni, e Pippo da poco, è un giro di boa da cui cui poi cominci a pensare in avanti e intanto, forse, comincia a passare anche la nostalgia dei 16 anni. Però, il fatto che l’età degli autori sia la grande assente del film permette un punto di vista nascosto, da cui raccontare il rimpianto per quella fase della vita e la paura di quella che verrà.
A proposito di figli, quello di Biagio Venditti è un ruolo delicatissimo. Come e perché avete scelto proprio lui, quali caratteristiche attoriali possiede per essere l’interprete perfetto di Mattia?
Biagio ha fatto il provino. Ho fatto i primi dieci giorni di provini solo per questo ruolo, e niente: poi è arrivato Biagio e, se si risentisse il provino, quando do lo ‘stop’, non riesco quasi a dirlo, perché mi ha tolto il fiato. Era perfetto, anche se quando era entrato la fisicità non mi aveva convinto: aveva i capelli cortissimi, l’aria un po’ fighetta, mentre lo immaginavo più ribelle, però il provino l’aveva fatto davvero bene, quindi a quel punto avevo un dilemma, anche perché altri due non erano male, così ho fatto un recall per tre e alla fine mi sono fatto promettere che avrebbe fatto dizione con mia moglie, Marzia Quartini, vocal coach, cosa su cui ha studiato per tutta l’estate, perché aveva un forte accento romano, mentre il film è ambientato a Lecce – e io sono proprio un fondamentalista salentino – e poi si sarebbe fatto crescere i capelli, su cui era d’accordo anche Abatantuono, che infatti nel film dice: ‘mi stanno sul cazzo quelli rasati…”. Biagio ha davvero fatto un lavoro fisico, sulla voce, sulla dizione; tutt’ora Biagio chiama ogni giorno Marzia, è davvero riconoscente, perché lei è stata molto abile nel gestire anche i suoi 16 anni, però, lui, non ha mancato di dimostrare una grande volontà di lavorare. E poi possiede le due componenti che permettono che una cosa riesca: intelligenza e sensibilità, e trovarle a 16 anni mi metteva quasi in imbarazzo.
E come s’è creato il rapporto con Abatantuono, per restituire la credibilità della coppia?
Diego all’inizio non gli diceva che fosse bravo, voleva tenerlo sul pezzo, mentre io volevo sempre abbracciarlo, perché mi faceva esaltare, riuscivo a vedere fisicità, voce, lacrime, sorrisi, era davvero fantastico: Diego è stato bravo a fargli un po’ da maestro, e piano piano l’ha fatto avvicinare, come fosse un road movie nel set, quel riavvicinamento tra Mattia e il nonno è stato anche tra i due attori, sono entrati davvero nei personaggi di nonno e nipote.
Il film esce al cinema il 12 settembre, distribuito da Medusa.
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