CORTINA D’AMPEZZO – Ha l’aria fiera di chi sa di aver scommesso sul giusto, il regista Gianni Amelio, colui che scoprì (nel primo ruolo cinematografico della sua carriera, fin a quel punto teatrale) Renato Carpentieri nel lontano ’89 con Porte aperte e che è tornato a dirigerlo nel film che è valso all’attore il David di Donatello come miglior protagonista, La tenerezza. “Ho vinto quattro David, il quinto non mi serviva, ero lì per sostenere i miei attori candidati: Renato è il primo interprete italiano ad aver fatto il grande slam, aggiudicandosi i quattro premi più importanti in Italia: Nastro d’argento, David di Donatello, Globo d’oro e Ciak d’oro”. Cinecittà News incontra Gianni Amelio al festival di corti Cortinametraggio, dove gli è stato consegnato il Nastro d’argento speciale per il suo cortometraggio Casa d’altri.
Partiamo da Carpentieri: perché in Italia occorre aspettare di avere 75 anni per veder riconosciuto il proprio talento e spessore attoriale dal grande pubblico?
Succede quando il talento è meno alla moda. Renato Carpentieri non ha mai badato o aspirato ad essere alla moda o accattivante, non si è mai svenduto. Ha recitato persino con Volonté, che vinceva premi mentre lui niente. Ricordo che ci rimaneva male.
Non è che il cinema italiano tende a scegliere sempre gli stessi nomi?
Bisogna certamente avere più coraggio. L’ha detto anche Renato, la sera dei David, ai produttori. Io non nego che ho dovuto lottare per imporre il suo nome.
Anche sulla locandina di La tenerezza…
I distributori e coloro che hanno il dovere di rendere appetibile quello che poi diventa un “prodotto” avevano paura di metterlo in primo piano, però Renato è stato così intelligente da non aver mai la smania divistica comune a tanti del “se il mio nome non è il primo non lo faccio”. Sapeva che il pubblico poi lo avrebbe riconosciuto.
Anche secondo lei la tenerezza oggi è qualcosa di rivoluzionario?
Prima di me, un politico straordinario come Papa Francesco ha detto: “L’uomo ha bisogno di tenerezza”. Spesso non abbiamo il coraggio della tenerezza, la scambiamo per debolezza o arrendevolezza, soprattutto noi uomini.
Ha appena pubblicato un romanzo molto autobiografico, “Padre quotidiano”, edito Mondadori. Una storia potente sulla paternità: pensa di portarla sullo schermo?
Tengo più a questo libro che a tutti i film che ho fatto. Sia per l’argomento, sia perché ho trovato un livello di scrittura che non credevo di possedere. Racconta la mia adozione di un ragazzo albanese mentre giravo Lamerica, una cosa che mi ha permesso di avere una famiglia incredibile. Se avessi un regista disposto a portare sullo schermo tutto questo, volentieri. Io non lo farò, ho scritto un libro proprio perché lo ritenevo la forma migliore per questa storia. Vorrei un regista che si riconoscesse in questa vicenda, non per forza un nome altisonante, non mi interessa.
Quale regista sente più vicino al suo stile?
Insegno al Centro sperimentale dal 1983 e tanti miei allievi sono diventati registi conosciuti, come Paolo Virzì. Quello che credo mi somigli di più è Francesco Munzi. Abbiamo passato anni, uno alla cattedra e l’altro al banco, ogni tanto ci scambiavamo i ruoli. Apprezzo anche Saverio Costanzo, bravissimo.
Tra i più giovani?
C’è Jonas Carpignano che, per un bizzarro gioco del destino, è figlio di uno dei miei migliori amici, la seconda persona conosciuta a 19 anni quando sono venuto a Roma. Volevamo scrivere insieme delle sceneggiature, l’altra sera ai David l’ho ritrovato dopo decenni, accanto a questo suo figlio, autore di un film interessantissimo.
Ha esordito nel cortometraggio, dopo tanti documentari, con Casa d’altri, ambientato tra le macerie di Amatrice. Le è venuta voglia di bissare l’esperienza?
Volentieri. Se mi danno la libertà di raccontarla a modo mio, qualunque storia mi va bene. Ho così tante idee che chiedo al Padre eterno, se c’è, che mi possa garantire l’elemento numero uno per un mestiere faticoso come quello del regista: la salute.
Ha mai pensato di realizzare un film sul terrorismo di oggi?
Se mi capita, lo faccio. Non ci sono argomenti su cui metto una croce sopra. Basta che mi garantiscano totale libertà nel raccontare.
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