VENEZIA – Tra Charlot e Marcovaldo, Antonio Pane è un antieroe dei nostri tempi che tutte le mattine, pur senza avere un lavoro fisso, si fa la barba ed esce di casa per fare il “rimpiazzo” ovvero per sostituire, per due ore o un’intera giornata, un autista del tram, un manovale, un cameriere, un attacchino o un badante. Spesso neanche lo pagano, quasi sempre lo trattano male, ma lui non si arrende. Gianni Amelio torna in concorso a Venezia, dove quindici anni fa vinse il Leone d’oro con Così ridevano (è stato l’ultimo italiano a farcela), ed è accolto da reazioni contrastanti, applausi ma anche qualche dissenso. Con la sua prima commedia, sebbene amara, che si intitola L’intrepido, come una famosa rivista a fumetti degli anni ’60-‘70, tocca temi cruciali, come il precariato e lo sfruttamento, la fine del sindacato e l’integrazione razziale, ma soprattutto il rapporto tra le generazioni. Il tutto attraverso Antonio Albanese, maschera tenera e ingenua, quasi un cartone animato, che si muove gentile in un mondo di lupi famelici. “Volevo lavorare con Gianni Amelio da quando vidi Il ladro di bambini”, dice l’attore. L’occasione giusta è arrivata con un personaggio che oltre al nome condivide molto altro con lui. “Vengo da una famiglia operaia che mi ha fatto scoprire il lavoro manuale. A 15 anni ero già in una piccola azienda metalmeccanica. Ho fatto l’imbianchino, il cameriere, il barista per pagarmi l’Accademia”. Nel film, prodotto da Carlo Degli Esposti con Rai Cinema e in sala dal 5 settembre con 01, c’è evidente la voglia di tornare a un cinema fatto di sentimenti semplici, l’omaggio al muto e a Chaplin, l’affrontare il tema della crisi con uno sguardo paterno, preoccupato per il destino delle generazioni più giovani, che sembrano incapaci di affrontare il proprio destino.
Esistono veramente i rimpiazzi? Vi siete ispirati a storie vere?
Mi auguro che non esistano, spero che non siamo caduti così in basso. E spero che qualcuno adesso non rubi l’idea e si metta a organizzare il lavoro in questo modo.
Cosa si aspetta dalla prova della sala, dopo i dissensi del Lido?
Mi aspetto che L’intrepido sia visto, che il pubblico arrivi al film in modo innocente. L’innocente per me non è un fesso, ma chi ha la forza del proprio candore e a lungo termine vince non perché dà i pugni più forte ma perché ha capacità di resistenza. Un pugile, quando finisce in carcere, si fa portare gli attrezzi per restare in forma, essere pronto a combattere quando uscirà.
È la sua prima commedia.
Non volevo fare un film di denuncia sociale o piangermi addosso. Questo spiega anche la novità rispetto agli altri miei film. Il mio produttore Carlo Degli Esposti ha detto che sembra una nuvola, perché cambia aspetto a ogni frazione di secondo. Non si può definire in modo univoco come Il ladro di bambini o Lamerica.
Si è ispirato alle comiche, al cinema muto, da Buster Keaton a Charlot?
La realtà purtroppo è quella che vediamo, ma la domanda da porsi è come reagire. Sta a noi modificarla ma con quali armi? Vogliamo diventare anche noi dei mascalzoni? C’è un aspetto francescano in Antonio Pane che lavora senza guardare alla qualità di quello che va a fare. Come dice lui, vuole farsi la barba tutte le mattine e uscire di casa. Nonostante tutto deve vincere la forza della persona umana. In Se questo è un uomo di Primo Levi c’è un internato che tutte le mattine, nel lager, si rade.
Cosa rappresenta per lei Charlot?
Charlot è una figura universale, umile tra i diseredati esce sano dalle situazioni più malsane. Charlot è l’uomo più solo del mondo quando alla fine dei film si allontana di spalle e nessuno lo aiuta tranne la sua fiducia. Il resto del mondo è fatto di persone che lo combattono, lui ha l’arma della fiducia, dei valori, della dignità di non scendere a compromessi. Questo è un film che vuole aprirsi al bello e al buono, un film fortemente fuori moda.
C’è un brano, “Nature Boy” di Nat King Cole, che fa da collante.
Da sempre volevo fare un film sul tema musicale di Nature boy, che qui diventa un filo rosso, il simbolo della liberazione del rapporto tra padre e figlio.
Durante le riprese avete diffuso delle foto di una scena girata alla Caritas di Milano, ma la scena nel film non c’è. Come mai?
Quella, come altre 5/6 sequenze, portava il film verso una realtà troppo reale. Al montaggio le abbiamo tagliate.
Il riferimento all’Albania ci riporta a “Lamerica”, a quei tempi l’Italia era un paese dove poter vivere meglio, ora sembra il contrario.
L’Albania in questo film è il misterioso paese dove si ha la forza di ricominciare da zero, mentre in Italia nessuno può azzerare la storia che gli sta alle spalle. In Albania Antonio trova lavoro in miniera ed è il lavoro più terribile che si possa immaginare. Quando ero bambino metà del mio paese, San Pietro Magisano, andava a Marcinelle in Belgio. Lì morivano o tornavano a casa per morire. Ma Antonio trova la forza di ricominciare, di imparare una nuova lingua. È una scena speculare alla sequenza de Lamerica in cui una bambina insegnava agli albanesi l’italiano. E anche lì insegnava la parola figlio.
Com’è la Milano che racconta nell’Intrepido?
L’ho riscoperta molti anni dopo Colpire al cuore, è cambiata. Oggi è una città che sta prendendo forma, una città fatta di cantieri. Trent’anni dopo quel film c’è un uomo che vuole compiere un miracolo su se stesso a Milano e Miracolo a Milano è il mio film preferito.
Non trova il finale un po’ consolatorio?
Tutti abbiamo bisogno di qualcosa che non ci lasci l’amaro in bocca. Vorremmo un po’ sognare. Anche quando facevo film più drammatici, ho sempre fatto lasciato qualche spiraglio di luce. Qui c’è una luce più chiara, è una favola.
Il produttore, Degli Esposti, ha definito il film una lettera da un padre e un figlio.
Vorrei parlare della spinta necessaria che dobbiamo dare alla generazione che si affaccia alla vita. Siamo responsabili di quello che gli diamo e spesso incapaci di fare il gesto giusto.
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