VENEZIA. Gianfranco Rosi presenta con affetto alla stampa a uno a uno i protagonisti del suo Sacro GRA, applaudito con calore in sala e dunque candidato a un possibile premio: Paolo e Amelia, il nobile piemontese e sua figlia, Roberto il barelliere – “un angelo a cui chiederò un massaggio cardiaco” -, Francesco il palmologo, Filippo – “il Bob De Niro di Nocera” – e Xsenia il principe e la consorte, Gaetano l’attore di fotoromanzi. Manca Cesare l’anguillaro, per lui pescare sul Tevere è più importante che venire al Lido.
Sono gli squarci, i frammenti di un’umanità sconosciuta e invisibile che abita in prossimità del Grande Raccordo Anulare, figlio del boom economico e della motorizzazione di massa, in mezzo al frastuono delle auto che percorrono la più estesa autostrada urbana italiana.
Il film, in sala il 26 settembre distribuito da Officine UBU, nasce da un’idea originale di Nicolò Bassetti, un paesaggista-urbanista che decide di percorrere i territori del Raccordo a piedi, in solitudine. A guidarlo nell’impresa un saggio di Renato Nicolini, secondo il quale il GRA – progettato dall’ingegnere dell’Anas Eugenio Gra (ironia) – “non supporta nessuna struttura. Esso esiste solo in funzione delle sue entrate e delle sue uscite”.
Dopo decine di incontri, centinaia di pagine di appunti e foto di viaggio, prende forma l’idea di raccontare il raccordo e i suoi mille mondi. Nasce così il Progetto SacroGra: un film, un libro, un sito web, una mostra.
Il film viene commissionato a Gianfranco Rosi, già autore di viaggi e peregrinazioni in giro per il mondo: Below Sea Level, El Sicario e Boatman. I primi sopralluoghi durano circa sei mesi. All’inizio il regista segue il paesaggista, poi il paesaggista segue il regista, lasciandolo libero e autonomo. Dopo due anni di chilometri, percorsi su un mini van, e di riprese seguendo i suoi personaggi, arrivano otto mesi di montaggio con Jacopo Quadri, per trovare in 300 ore di girato l’essenza di ognuno dei personaggi e la loro coralità nascosta.
Prima volta di un documentario in Concorso a Venezia, che ne pensa?
Sono quasi 25 anni che faccio documentari e Sacro GRA costituisce un punto d’arrivo. Ringrazio il direttore Barbera per l’attenzione e il coraggio mostrati avendo messo in Concorso il mio film. Non c’è nessuna differenza tra finzione e documentario, si tratta sempre di drammaturgia e dunque ogni storia ha un suo modo di essere narrata. Semmai è importante domandarsi ciò che è vero e ciò che è falso.
Ha impiegato tre anni per realizzare il suo film?
Sì, con budget contenuto e con grande paura da parte del produttore che all’inizio talvolta mi chiedeva “Stai girando?” e io rispondevo affermativamente. In realtà stavo girando intorno al raccordo perché nei primi sei mesi ho preso confidenza con i luoghi e le persone, il tempo necessario per avvicinarsi.
Grazie al paesaggista-urbanista Nicolò Bassetti lei ha conosciuto Renato Nicolini, l’inventore dell’Estate Romana.
La cosa più difficile è stata impossessarsi del GRA, farlo mio e che non fosse solo una striscia d’asfalto. Decisivo allora l’incontro con Nicolini con il quale ho fatto un giro del raccordo, giro che ho filmato ed è diventato un piccolo documentario presentato all’ultimo Festival di Roma.
Come ha scelto i suoi personaggi?
Il raccordo è un pretesto narrativo, un luogo privo di identità dove ho trovato tessuti di umanità. Di loro sappiamo ben poco, c’è una sottrazione di informazioni, s’intuisce solo che hanno un intenso rapporto con il passato. Fanno emergere la loro poetica, in fondo sono attori che recitano senza sapere di recitare.
Con ciascuno di loro ha passato molto tempo prima di girare?
Prima di filmare è per me indispensabile compiere un processo di avvicinamento ai personaggi e alle loro storie che può durare anche mesi. Il palmologo dopo averlo frequentato per due anni, solo un giorno, poco prima del tramonto, mi ha consegnato la sua storia e ho girato quei 20 minuti poi utilizzati.
Potremmo interpretare Sacro GRA come il controcanto de “La grande bellezza”?
Attenzione, aiuto… diciamo che i due film mostrano aspetti di Roma uguali e opposti: uno si muove in direzione centripeta, l’altro centrifuga. La grossa crisi del nostro Paese non è economica, che ciclicamente arriva e poi viene superata, ma la crisi d’identità, del singolo. Una crisi che abita nella città dove non c’è un futuro possibile. Così guardo fuori Roma, perché la vita comincia lì con personaggi che hanno una forte identità, mentre la città è mummificata, un pantano turistico, gastronomico, culturale.
Come nasce il titolo?
Era già parte del progetto che mi è stato affidato, perché questo è un film su ‘commissione’. Solo a lavoro terminato ho compreso che la parola ‘sacro’ allude al mistero di un luogo.
Ha avuto dei riferimenti per la fotografia?
Non c’è stata a priori l’idea di uno stile particolare, a guidarmi è stata la luce. Ho trattato la materia con un approccio il meno documentaristico possibile, del resto la forza del documentario sta nella sperimentazione.
Rimpianti finali?
L’assenza tra le storie di un personaggio giovane e di una donna.
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