“Il fenomeno delle donne criminali è soltanto un’onda nell’ampia corrente dell’emancipazione, un‘onda che non è arrivata al suo apice ma che presto potrebbe raggiungere il picco della violenza maschile. Il meglio e il peggio devono ancora venire. Il punto d’arrivo è ancora sconosciuto”. Con questa riflessione della criminologa femminista Freda Adler si chiude il documentario Le scandalose (sezione Riflessi della Festa di Roma) di Gianfranco Giagni, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, che ripercorre i casi più o meno famosi di donne assassine nell’Italia, dal dopoguerra agli anni ’70.
Da Leonarda Cianciulli, la “saponificatrice”, processata dopo il ’45 per omicidi compiuti durante il fascismo, alle sorelle Lidia e Franca Cataldi, da Rina Fort alla contessa Pia Bellentani, da Pupetta Maresca a Luigina Pasino e a Doretta Graneris. Donne che uccidono amanti, mariti, bambini, familiari, altre donne e uomini, per motivi diversi: follia, gelosia, vendetta, disperazione, soldi.
Donne che confessano il loro crimine mentre l’Italia si risolleva dalle macerie del conflitto e si arriva al boom economico.
Giagni, come è nato Le scandalose?
L’idea è della giornalista e scrittrice Silvana Mazzocchi che ha firmato la sceneggiatura con Patrizia Pistagnesi, io mi sono occupato della regia del documentario che si compone sia di materiale di repertorio, sia originale. Per quest’ultimo ho girato nell’ex manicomio criminale di Aversa, dove ci sono corridoi vecchi, altri abbandonati, altri ancora ristrutturati, tutti utili per sottolineare il passaggio del tempo. L’idea fondamentale è che le donne assassine fino alla metà degli anni ’30 erano ancora considerate streghe e successivamente, di decennio in decennio, con l’emancipazione femminile è avvenuta un’equiparazione, un’uguaglianza con l’uomo nel delitto. Silvana e Patrizia hanno individuato sette delitti in un arco temporale che arriva agli anni ’70 e li abbiamo fatti raccontare da scrittori come Dino Buzzati, Vitaliano Brancati, Hans Magnus Enzensberger, o giornalisti come Camilla Cederna, Oreste Del Buono.
Tranne che per il caso Cianciulli, il documentario non parla di delitti avvenuti durante il fascismo.
Durante il regime la cronaca nera era bandita, nello stesso archivio Luce per quanto ricco non c’è nulla. Solo con la Liberazione c’è stato un boom della cronaca dei delitti, un segno della libertà della stampa che ha visto grandi cronisti giudiziari come Tommaso Besozzi avere mano libera e raccontare quegli eventi.
Come avete proceduto nella scelta dei casi?
Abbiamo scelto i più emblematici, tra cui un paio sconosciuti: quello della Luigina Pasino, avvenuto alla metà degli anni ’60 in epoca predivorzio – “meglio fare trent’anni di carcere piuttosto che continuare a vivere con mio marito” – e quello delle giovanissime sorelle Cataldi, accaduto nella Roma del dopoguerra, che uccidono l’amica e il figlio testimone per una pelliccia di volpe.
Il documentario mostra una grande cura attenzione e nel montaggio.
A parte il materiale che ho girato, tra cui anche le immagini degli strumenti usati per uccidere che sono custoditi nel Museo del crimine, ho usato i cinegiornali, le cronache dell’Istituto Luce dei processi e degli omicidi. E poi tante immagini fuori contesto, provenienti dall’Archivio Luce, facendole rivivere. Ho utilizzato per esempio le immagini di un concorso per cani, alla fine degli anni ’40, per spiegare il mondo dell’alta borghesia milanese, un po’ finta e un po’ fumetto, in cui viveva la contessa Bellentani che uccise l’amante. Ho decontestualizzato quello che c’era e ho creato qualcosa di diverso. Nello stesso modo ha anche utilizzato documentari di registi importanti. Maselli, Emmer, Zurlini, o Basilio Franchina che ha firmato nel ’46 un bellissimo lavoro sulla polizia scientifica, e ancora Mario Chiari che ha raccontato lo stregonesco in Puglia. E soprattutto un documentario del ’50 di Luigi Comencini L’ospedale del delitto sul manicomio giudiziario di Aversa, con le facce dei reclusi, tra cui la Cianciulli, che ho riproposto.
Sonia Bergamasco è la voce delle donne assassine e Claudio Santamaria quella degli uomini giornalisti.
Ho evitato la voce fuori campo che non amo, anche perché in un documentario di montaggio come questo si può lavorare molto con i materiali dei verbali e i testi dei cronisti. Ed è la prima volta che lavoro con i materiali del Luce, soprattutto quelli degli anni ’30 e ’40 la cui qualità straordinaria fa pensare che i loro autori conoscano il cinema americano dell’epoca, e mi ha spinto a ‘manipolare’ queste immagini bellissime in bianco e nero.
Perché il titolo Le scandalose?
Perché parliamo di donne che hanno creato scandalo con i loro delitti e il sottotitolo Women in Crime perché al cartello iniziale con la frase di Cesare Lombroso fa da contrappunto la frase finale di Freda Adler, una femminista americana, misconosciuta e mai tradotta in Italia, che ha studiato negli anni ’70 il fenomeno delle donne criminali nel saggio “Sisters in Crime”.
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