Gian Maria Volonté o la mimesi degli uomini illustri

30 anni fa se ne è andato il più grande attore italiano: cos’è stato e cosa poteva essere


Aveva un carattere impossibile, duro come l’acciaio e tenero come il giunco; poteva litigare a morte per un’idea e intenerirsi per un braccio di mare; rischiare tutto per un amico e rompere un’amicizia per un’opinione politica. È impossibile separare il genio artistico di Gian Maria Volonté dalle sue scelte di vita e anche per questo lo si ricorda, il 6 dicembre a 30 anni dalla morte, come un fenomeno irripetibile sulla scena italiana e internazionale. Se l’è portato via un infarto improvviso sul set di Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, che gli dedicò il film al Festival di Cannes (Premio speciale della giuria nel 1995), ricordando come il suo ruolo (Ivo Levi, poi messo sulle spalle di Erland Josephson) avesse il senso dello sguardo moderno sulla crisi del comunismo nella tormentata terra dei Balcani.

A quell’epoca, Gian Maria aveva rescisso forse definitivamente il cordone ombelicale col cinema italiano, a cui deve il suo formidabile mito di ostinato maverick contro ogni forma di potere, e con il suo paese, in cui non si riconosceva più da tempo. Ma si deve partire proprio da quell’estremo atto di autocoscienza e da quella morte violenta, dopo anni di sofferenza e malattia, per risentirne la voce polemica e attualissima, così come per rileggerne quella vita, sempre vissuta “in direzione ostinata e contraria”, che lo fa simile a un Pasolini della settima arte.

Volonté era nato a Milano il 9 aprile 1933, era cresciuto a Torino, divenne adulto a Roma e trovò la sua vera identità alla fine in Sardegna, nella bellezza appartata dell’isola di Maddalena dove adesso riposa e dove la figlia Giovanna ne custodisce la memoria con la tempra e la passione ardente ereditata dal padre.

Il trauma del rapporto coi genitori segna la vita dell’attore fin dalla più tenera età: il padre, militare fascista, ufficiale della Repubblica di Salò, viene arrestato alla fine della guerra, incolpato di stragi e rastrellamenti quand’era al comando della Brigata Nera di Chivasso, e condannato a 30 anni. La madre, figlia di industriali milanesi, divise coi figli, Gian Maria e Claudio, gli stenti del dopoguerra quando, ridotta in povertà dopo la condanna del marito, si arrangiava affittando le stanze di casa e vendendo i gioielli di famiglia. Gian Maria, ad appena 14 anni, abbandona gli studi, va in Francia a raccogliere mele come lavoratore stagionale, torna a Torino e si iscrive alla scuola di recitazione di Edoardo Maltese, esordendo con lui in teatro per poi farsi le ossa in una compagnia di teatro itinerante, I carri di Tespi. Approda poi a Roma all’Accademia Silvio d’Amico dove Orazio Costa ne scopre il formidabile talento e lo fa debuttare nella Fedra di Racine.

Dopo un periodo triestino tra lo Stabile e il teatro off, debutta in tv nel 1959 con L’idiota diretto da Silverio Blasi, seguito da un memorabile Caravaggio. Nonostante grandi compagni di teatro (Sbragia, Salerno, Garrani), è proprio la tv a renderlo popolare, soprattutto quando Blasi lo riporta nel mondo degli sceneggiati con Michelangelo nel 1964, dopo la prima “burrasca” lavorativa dell’attore: aveva litigato col Vaticano per una impedita messa in scena de Il vicario di Rolf Hochhuth per violazione dei Patti Lateranensi, e poi per aver abbandonato lo sceneggiato Delitto e castigo dopo una litigata col regista Anton Giulio Majano.

Il salto di qualità ha tutti i colori dell’imprevisto: il quasi debuttante Sergio Leone lo porta in Almeria per fare il perfido Ramon in Per un pugno di dollari. È quello stesso 1964 in cui si affermava definitivamente in tv, mentre al cinema, dopo un paio di non memorabili “sandaloni” e qualche apparizione di qualità (La ragazza con la valigia, A cavallo della tigre), si spende in due film-simbolo della sua passione politica, sottovalutati: Un uomo da bruciare di Valentino Orsini, in cui incontra i Fratelli Taviani, e Il terrorista di Giancarlo De Bosio. Ma nel western spaghetti, di fronte al suo collega Enrico Maria Salerno (la voce di Clint Eastwood), ma privato della sua (lo doppia Nando Gazzolo), Volonté diventa personaggio, un vilain psicopatico e spietato che attraverserà tutta una stagione del western all’italiana, spesso sposandone l’allegoria anticapitalista da Quien Sabe? a Faccia a faccia con Tomas Milian.

Da quel momento in avanti, dopo l’impareggiabile autoironia del Teofilatto dei Leonzi ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli (1966), Gian Maria Volonté avvia la sua galleria di personaggi memorabili: il mite Laurana di A ciascuno il suo (primo incontro con Elio Petri e Leonardo Sciascia), le storie della Resistenza (il partigiano Aldo de I sette fratelli Cervi), e quella della malavita (il Cavallero di Banditi a Milano); poi il commissario criminale e tormentato di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Oscar al miglior film straniero, 1971), il soldato ribelle di Uomini contro, l’eroe anarchico di Sacco e Vanzetti e l’eretico Giordano Bruno, fino al metalmeccanico de La classe operaia va in paradiso, al comunista in crisi de Il sospetto e al giornalista corrotto di Sbatti il mostro in prima pagina.

Non aveva mai paura di sporcarsi le mani, trasformando la sua maschera mobilissima per adattarsi ad eroi e mostri del nostro tempo: Enrico Mattei, Lucky Luciano, Carlo Levi, sempre in simbiosi con Francesco Rosi alla regia. Avrebbe potuto fare una carriera anche più fulgida, sia quando rifiutò Metti una sera a cena litigando con Marina Cicogna (che poi ebbe la saggezza di richiamarlo per Indagine), sia quando respinse le offerte di Francis Ford Coppola (Il padrino) o Bernardo Bertolucci (Novecento) per andare a girare in Messico con Miguel Littin Actas de marusia.

Il suo addio ideale al cinema italiano coincide con i due ultimi film tratti da Leonardo Sciascia, lo scrittore che al tempo di Petri era stato in qualche modo il suo alter ego intellettuale: Porte aperte di Gianni Amelio e Una storia semplice di Emidio Greco (che gli vale il Leone d’oro alla carriera). Lacerato dai contrasti politici anche con il “suo” partito comunista, sfinito da una società in cui non si riconosce, Volonté rimane un isolato errante, un principe senza terra.

Non così Gian Maria che, tra un furore e l’altro, si fa amare come pochi: dalle compagne di vita (Carla Gravina, Armenia Balducci, Angelica Ippolito), dalla figlia Giovanna, da amici leali come Felice Laudadio, i Fratelli Taviani, Theo Angelopoulos. Quando scompare un gigante del suo stampo, vengono in mente i semidei dell’Olimpo e si tende a dire che il calco è perso per sempre. Ma sono convinto che se fosse ancora con noi ritroverebbe in giovani eredi come Michele Riondino e Elio Germano il senso autentico della sua lotta inesausta dentro e fuori dal cinema, nella politica e nella società; perfino nel cuore dei sentimenti.

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01 Dicembre 2024

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