Géza Röhrig: il gesto straordinario di Saul nell’inferno di Auschwitz

Gran premio della Giuria e Premio Fipresci a Cannes 2015, Golden Globe per il Miglior film straniero e nomination per l’Oscar, sono i meritati riconoscimenti de Il figlio di Saul di László Nemes


Gran premio della Giuria e Premio Fipresci a Cannes 2015, Golden Globe per il Miglior film straniero e sempre in questa categoria nomination per l’Oscar, sono alcuni dei meritati riconoscimenti ottenuti da Il figlio di Saul, opera prima dell’ungherese László Nemes, che arriva in sala il 21 gennaio con Teodora in occasione della Giornata della Memoria. Un’opera che aggiunge un tassello importante e significativo alla filmografia della Shoah, a cominciare dalla fonte di ispirazione, il libro “La voce dei sommersi” (Marsilio editore), raccolta di manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando del campo di sterminio di Auschwitz.
E’ la cronaca dell’orrore resa da quei prigionieri ebrei che, scelti dalle SS, facevano parte della squadra speciale addetta alle operazioni di sterminio degli ebrei. Prima accompagnavano nelle camere a gas e facevano spogliare gli altri prigionieri, poi procedevano al “trattamento” dei cadaveri nei crematori di Birkenau. Lo sterminio veniva eseguito con precisione e velocità, secondo ritmi industriali. Ai membri del Sonderkommando veniva garantito qualche piccolo privilegio: tenere il cibo trovato nei treni e un minimo di libertà di movimento nel campo. La maggior parte di questi uomini veniva poi eliminata dalle SS dopo alcuni mesi per non lasciare testimonianza del genocidio.

Nel film Saul fa parte del Sonderkommando di Auschwitz, lavora in silenzio, continuamente minacciato e picchiato, in uno dei forni crematori, quando scopre il cadavere di un giovane e si convince che sia il figlio. Saul tenta l’impossibile, un gesto di resistenza umano e nel contempo sacro in un universo dell’orrore: salvare quel corpo dai forni, e con  il kaddish, la preghiera di un rabbino, dargli una sepoltura. Intanto nel campo scoppia quello che è stato l’unico tentativo di rivolta armata, avvenuto ad Auschwitz nel 1944, e una macchina fotografica viene recapitata dalla resistenza polacca.
Il film di Nemes sceglie di narrare la vita e la morte del campo di sterminio in modo differente rispetto agli altri film sulla Shoah. La cinepresa segue Saul senza sosta, come una compagna, non va oltre la sua presenza, lo affianca in quell’inferno mentre l’orrore rimane sullo sfondo o indistinto o fuori campo.

A immedesimarsi totalmente nel taciturno e disperato Saul è Géza Röhrig, attore non professionista, poeta e scrittore che dopo aver vissuto a Gerusalemme si è trasferito a New York. Röhrig è nato a Budapest nel 1967 e rimasto orfano a 4 anni è stato adottato, dopo alcuni anni in orfanotrofio, da una famiglia ebraica.

Géza Röhrig, chi erano i Sonderkommando?
Erano individui traumatizzati che portavano centinaia di persone vive nelle camere a gas e pochi minuti dopo le estraevano morte, persone che venivano dalle loro stesse città e che a volte conoscevano. Questa divisione dei compiti all’interno del campo di sterminio è l’aspetto demoniaco del nazismo. Veniva ucciso il maggior numero di ebrei utilizzando il minimo di tedeschi e facendo fare il lavoro sporco agli altri.
Questa storia di uomini che uccidono i loro simili è una storia vecchia, ma qui c’è qualcosa di nuovo: gli assassini hanno la possibilità di sentirsi innocenti, lasciano ad altri il compito per esempio di separare i corpi aggrovigliati, di disinfestare e pulire le camere a gas perché gli altri che verranno non capiscano, di trasportare i cadaveri nei forni. Finita la guerra i Sonderkommando sopravvissuti si sono sentiti colpevoli, mentre i tedeschi in uniforme non confrontandosi con le conseguenze immediate delle loro azioni si sono ritenuti innocenti. Un modo scientifico di dare la morte che si è sviluppato negli ultimi tempi con l’impiego dei droni.

Come erano visti i Sonderkommando da gli altri prigionieri?
Con invidia e disprezzo  perché vivevano in condizioni meno atroci, ma non sapevano che avrebbero avuto la loro stessa sorte: venivano uccisi ogni 4 mesi in quanto testimoni chiave. Lo stesso Primo Levi dal primo all’ultimo suo libro cambia opinione su di loro e la stessa  reazione l’hanno avuta le truppe sovietiche  che una volta entrate nei lager hanno ucciso dei Sonderkommando.

Quale sfida l’ha impegnata come attore?

Colmare il divario tra la mia esperienza di vita e la realtà vissuta da queste persone. Le mie fonti sono state letterarie, ho letto moltissimo, in particolare i resoconti dei Sonderkommando sopravvissuti che sono stati pubblicati negli anni ’80. E poi voi avete in Italia un grande pensatore Primo Levi che mi ha aiutato tanto con il suo modo di affrontare il dilemma etico che sta alla base.

Ma ha anche contribuito la sua storia personale?

I genitori, la sorella maggiore e il fratello minore di mio nonno, non sono mai tornati dai lager e a 12 anni, dopo che avevo trovato delle foto in una vecchia scatola di persone a me sconosciute, mio nonno mi ha dato un racconto esaustivo di quegli avvenimenti che poi non mi ha più abbandonato. Ricordo in particolare una sua frase: “Se non sei stato lì non puoi dire che cosa è stato”.

Nel suo caso il genocidio è un trauma intergenerazionale?

Sono stato traumatizzato da esperienze che non ho vissuto direttamente. A volte i genitori cercano di proteggere i figli da esperienze traumatiche che non hanno vissuto, ma che spesso percepiscono. Credo sia meglio affrontarle nel momento giusto, dando ai figli la possibilità di elaborarle, piuttosto che proteggerli in modo eccessivo.

Lei è un poeta, quale è la differenza tra il narrare nei libri la Shoah e rappresentarla sul grande schermo?
Il primo libro che ho scritto su Auschwitz è stato accolto bene anche dalla critica., ma credo che fosse prematuro, non ero ancora pronto, non avevo sufficiente esperienza e distanza. Sono contento che il film alla quale ho collaborato vada oltre la mia raccolta di poesie. Laszlò più di me è stato capace di aspettare il momento giusto per poi trovare l’approccio migliore nel narrare questa storia.

“Tu sacrifichi i vivi per un morto”, dice un deportato a Saul impegnato a dare una sepoltura al giovane.
Alcuni dopo aver visto il film mi hanno detto arrabbiati che Saul è uno sciocco, che avrebbe dovuto partecipare a quella rivolta. Che senso ha seppellire un unico ragazzo quando intorno a Saul si consumano i peggiori crimini. Una domanda ci siamo posti realizzando il film: c’è qualcosa di più importante della mera sopravvivenza fisica o quest’ultima è tutto? Sono credente e il desiderio di sopravvivenza è per me legittimo ma ha in sé una componente animalesca e egoistica. Non volevamo fare di Saul un eroe, è un uomo ordinario, normale che prende una decisione straordinaria, nata da un moto istintivo. Il suo gesto si colloca a un livello superiore se confrontato con quello dei Sonderkommando che vogliono scappare.

Avete chiamato il protagonista Saul coscienti di usare un nome dal significato forte per la cultura ebraica?
Enfatizzerei piuttosto il cognome del protagonista: Auslander. In tedesco significa ‘lo straniero’, io direi l’extraterrestre perché il suo comportamento va oltre, non appartiene al nostro pianeta. Certo sul nome Saul sono nate tante interpretazioni, anche perché alla fine in fondo viene battezzato nelle acque del fiume, si trasforma in Paolo. Le letture sono molteplici e questo film, come ogni opera d’arte enigmatica si presta a differenti interpretazioni.

Grande rilevanza assumono il suono rispetto all’immagine e la macchina da presa che pedina Saul e lascia tutto il resto fuori fuoco o a volte fuori campo.
C’è stato un lavoro enorme sul suono in post produzione che ha impegnato 5 persone, otto ore al giorno. Tutti i suoni venivano riprodotti rispettando le diverse lingue: tedesco, ungherese, yiddish e polacco. Da subito mi sono abituato ad avere la macchina da presa incollata al mio viso.
Il film si compone di inquadrature lunghe, in genere in un film ce ne sono 200, qui sono 80 con il risultato finale che allo spettatore sembra di essere dentro il campo di sterminio. Per realizzare riprese di 2 minuti e oltre abbiamo fatto lunghe prove di preparazione, anche 3 ore ogni scena per creare la coreografia. Il film è costato solo un milione di euro e ha richiesto 28 giorni di riprese.

Insomma il film le ha richiesto un grande investimento emotivo come attore?
La parte più dura è venuta dopo le riprese, perché sono tornato alla nostra realtà che mi pare molto superficiale. Nel nostro quotidiano si dà importanza a cose accidentali, mentre  ad Auschwitz la qualità dell’esistenza più profonda viene quasi esaltata, emerge  di una persona quello che è il suo carattere. E’ come se Auschwitz fosse un posto più vero della realtà esterna. E’ questa la componente che mi manca come persona e non come attore, sento che viviamo in un modo molto frivolo e superficiale. Anche la lingua è diversa, anche le parole che venivano usate ad Auschwitz avevano un significato diverso, a cominciare dal termine ‘fame’. 

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19 Gennaio 2016

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