Generazione di fenomeni

I The Pills sono un autentico fenomeno generazionale, e debuttano ora in sala con la commedia (amara) Sempre meglio che lavorare, sull'eterna adolescenza di tre trentenni, o quasi, in sala dal 21 gen


22 milioni di visualizzazioni su YouTube non sono certo bruscolini. I The Pills sono un autentico fenomeno generazionale, e l’accorto produttore Pietro Valsecchi, ora sugli scudi con gli oltre cinquanta milioni guadagnati da Quo Vado?, che grazie alla segnalazione di suo figlio ha deciso di dare una chance cinematografica a Luca Vecchi (anche regista), Matteo Corradini e Luigi di Capua, le webstar che, dopo lo sbarco in tv, debuttano ora in sala con la commedia (amara) Sempre meglio che lavorare, sull’eterna adolescenza di tre trentenni, o quasi, in sala dal 21 gennaio in 350 copie con Medusa.

“Abbiamo voluto raccontare qualcosa di onesto e autobiografico. I nostri inizi, quando dopo la laurea, trovando solo lavori dove per 8 ore al giorno ti davano 300 euro al mese, abbiamo deciso di fare le cose che ci piacevano, con i video girati in cucina – spiega Di Capua –  All’inizio eravamo alla miseria, ma mollare e andare a lavorare avrebbe voluto dire rinunciare in qualcosa in cui credevamo”.

Ma dato che il credo di uno dei tre protagonisti è: “Una vita con la sveglia alle 7.30 non merita di essere vissuta”, viene da chiedersi se dopotutto non sia andata meglio così, dato che l’idea di un lavoro ‘fisso’ alle nuove generazioni (in questo quasi l’antitesi dell’eterno impiegato Checco Zalone nel suo ultimo film) fa tanta paura. Lo scherzoso e rassicurante limbo in bianco e nero, marchio di fabbrica dei loro video su YouTube, in cui i protagonisti si rivedono anche in una versione fanciullesca, si trasforma in un’incombenza carica di responsabilità a colori ogni volta che emerge il concetto di ‘realtà’ e ‘responsabilità’ (e cinematograficamente, c’è da dire, la trovata funziona molto).

“Ci andremmo per 10mila euro al mese – risponde ancora Di Capua – ma comunque sui trent’anni capita, e questo sia comune a tutte le generazioni, di sentirsi sull’orlo di un baratro, una sorta di salto nell’iperspazio. Si prende coscienza del fatto che la scelta che si fa in quel momento ti segnerà per tutta la vita. Riemergono velleità sopite, chi vuole scrivere, chi fare il regista, chi il rapper. Per noi era così. Certo essere velleitari è un lusso. Siamo andati avanti grazie all’aiuto dei genitori – aggiungono – i nostri personaggi, senza fare paragoni, sono un po’ come ‘I vitelloni’, non fanno niente perché possono permetterselo”.

Ma uno dei personaggi più riusciti della pellicola è proprio il papà di Matteo (interpretato dal suo vero padre), che a un certo punto si stufa di fare l’idraulico per mantenere il figlio e apre un blog, diventa regista di una web serie e si trasferisce a Berlino. “Cosa succede quando chi ti sostiene ti molla? – si chiedono i tre – crolla un sistema”.

C’è chi li ha definiti dei nuovi ‘Ecce Bombo’. Matteo preferisce glissare: “lasciamo perdere i paragoni. Qui ci uccidono. E’ stato solo un modo per planare delicatamente verso i trent’anni.  Quando mi hanno spiegato cos’era il posto fisso ci sono rimasto male. Non capivo. ‘Come, lo stesso lavoro tutta la vita? E se poi ti stufi? Mi suonava tutto stranissimo”. “Piuttosto – aggiunge Luca Vecchi – da sempre ci ispiriamo chiaramente a Kevin Smith e Clerks, ma il bianco e nero ha anche una valenza documentaristica. Ma siamo cresciuti anche con tanta televisione, conosciamo Frank Capra, la nouvelle vague,  i comici stand-up come Jerry Seinfeld, David Lynch. Matteo è l’unico che ride con David Lynch. E poi ci abbiamo messo un po’ di malinconia, come nei film di Francesco Nuti”.

Se non altro, questi ‘vitelloni 2.0’, precari con orgoglio e che considerano il lavoro un pericolo da cui salvare l’amico caduto in tentazione, non abitano al centro in lussuosi appartamenti (come spesso capita di vedere nei film degli ultimi dieci anni) ma più realisticamente nella periferia romana del Pigneto, di cui la pellicola offre ampi e suggestivi scorci. “E’ questa la nostra storia – conclude Di Capua – Non ci interessa che a Milano non riconoscano quelle zone. Abbiamo voluto raccontare la Roma che viviamo, non cupa come quella di Suburra ma nemmeno piena di finti agi. Io un loft non l’ho mai visto in vita mia e mangio ancora dai miei genitori”.      

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13 Gennaio 2016

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