Dopo il successo di Anime nere, Francesco Munzi torna al Festival di Venezia, fuori Concorso, con un film costruito esclusivamente con materiale documentario, tratto dai più importanti archivi d’Italia (Luce, Teche Rai, Archivio del Movimento operaio, Cineteca di Bologna). Assalto al cielo racconta la parabola di quei ragazzi che animarono le lotte politiche extraparlamentari negli Anni compresi tra il ’67 e il ’77 e che, tra slanci e sogni ma anche violenze e delitti, inseguirono l’idea della rivoluzione, tentando appunto l’assalto al cielo. “Fare questo film – spiega il regista – ha significato per me fare un viaggio visivo e sonoro dentro quegli anni intensi e drammatici, provando a visualizzare, attraverso le testimonianze dirette, l’impressionante passaggio di un’epoca. Ho scelto di lasciarmi trasportare dalle emozioni e dallo slancio vitale che percorre quegli anni. Non volevo giocare sul piano storico, ma raccontare quel sentimento forte, quel sogno che man mano si corrompe fino ad arrivare a frantumarsi e dissolversi”.
Assalto al cielo è una produzione Istituto Luce Cinecittà, che lo porta in sala dal prossimo autunno, in collaborazione con Rai Cinema.
Nel 1968 non era ancora nato. Cosa l’ha spinto a indagare un periodo storicamente vicino ma che non ha vissuto personalmente?
Appartengo a una generazione che ha vissuto gli anni della contestazione in maniera tangenziale, ad altezza di bambino. Con un sentimento infantile che da piccoli, in un misto di eccitazione e incoscienza, ci spingeva a giocare a fare i brigatisti. Il desiderio di fare questo film nasce da qui, da un groviglio di racconti, suggestioni e sprazzi di memoria che hanno determinato nel tempo un’attrazione personale sempre maggiore. Spesso, però, la narrazione delle lotte politiche di quegli anni è stata ostaggio del racconto di chi quelle storie le ha vissute in prima persona, quasi fossero gli unici titolati a parlare di quel periodo. Quello che ho voluto fare è stato invece tornare alle fonti e tirare fuori dal cassetto i materiali d’epoca lasciando che fossero solo loro a parlare. Da qui la scelta, forse azzardata ma che difendo pienamente, di evitare anche la voce narrante fuori campo.
Non ci sono date inserite nel filmato a scandire i diversi momenti storici, ma solo un flusso di immagini di repertorio. Cosa l’ha guidata nella selezione dei materiali?
All’inizio mi sono lasciato guidare da un percorso temporale e da un approccio quasi da ricercatore, raccogliendo e ordinando tutti i materiali in maniera cronologica. Ma poi ho scelto di lasciarmi trasportare dallo slancio vitale che percorre tutti quegli anni. Non volevo giocare sul piano storico, ma raccontare quel sentimento forte, quel sogno, che man mano si corrompe fino ad arrivare a frantumarsi e dissolversi. Una volta scelto l’orizzonte estetico abbiamo iniziato a scremare il materiale scartando i filmati più istituzionali o troppo manipolati e gli interventi dei leader politici di primo piano.
Tra le documentazioni poco conosciute l’intervista ai genitori di Walter Alasia, giovane brigadista ucciso nel ’76 durante un tentativo di arresto da parte delle forze dell’ordine in cui reagì sparando e uccidendo un poliziotto.
Quell’intervista di dodici minuti è stata una delle grandi sorprese dei materiali d’Archivio. Un’intervista che ha una densità e compostezza straordinaria e che sembra raccontare l’intera parabola del terrorismo. Nella stanza del ragazzo vediamo i poster dei partigiani attaccati al muro come fossero rock star, in una commessione con la storia italiana del passato. Il padre, operaio di Sesto San Giovanni, scopre solo dopo che il figlio è morto l’esistenza delle brigate rosse, che fino a quel momento crede siano un’invenzione. Ma anche se non ne condivide le scelte, non riesce a condannare il figlio, ammettendo: “Il mio dovere è continuare a volergli bene, soprattutto in questo momento in cui ci sono molte persone che lo odiano”
Rivelazioni inaspettate venute alla luce durante il lavoro di ricerca?
Personalmente il ‘68 me lo immaginavo molto più serioso e incentrato sul solo aspetto politico, mentre ho scoperto anche lati più leggeri, condizionati da emozioni e influssi new age di riscoperta del corpo e della natura. Nel tramandare il periodo storico credo ci sia stato da una parte un eccesso di mitizzazione e dall’altro un’eccessiva insistenza sugli periodo buio degli Anni di piombo. Come se il terrorismo e la violenza si fossero mangiati nel racconto lo slancio generazionale e le importanti conquiste sociali ottenute in quegli anni.
Il film esce in sala in autunno con Luce Cinecittà. A chi è destinato?
Credo che la percezione del film dipenda molto dall’età di chi lo guarda. Ci sarà chi si divertirà a rivivere il periodo o a riconoscere amici di vecchia data, e chi si ritroverà interessato a scoprire un periodo che non conosce. Ma il pubblico a cui ho pensato sono soprattutto giovani. Vorrei che il film fosse per loro uno stimolo a guardare un paese che è mutato e a focalizzare lo sguardo sulla possibilità di cambiare le cose. Non voglio dare messaggi o incitare a nuove rivoluzioni, ma andrebbero riscoperte di quegli anni non l’ideologia, ormai superata, ma la partecipazione generale e la passione per la cosa pubblica.
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