SATURNIA – Aveva 23 anni quando riceveva il Premio Biraghi come Miglior Attore Esordiente a Venezia; era il 2018 quando è stato riconosciuto Miglior Interprete Maschile per Il Cacciatore a Cannes; al V Saturnia Film Festival riceve il premio come Attore dell’Anno: lui è Francesco Montanari.
Romanzo Criminale – La serie: era il 2008, era Il Libanese. È stato parte di una squadra di interpreti, creativi e produttori che ha fatto da apripista ad un fenomeno, dopo 14 anni ormai una tendenza della quale non si può fare a meno: la serialità. Da ‘precursore’: qual era, qual è diventato e come crede sia giusto debba evolvere questo linguaggio, diverso dal cinema, ma complementare?
Per l’Italia, è stato un po’ uno spartiacque, Sky aveva rotto un po’ le regole della fiction, non per fare un discorso qualitativo ma ‘di stile’: la fiction lavora sugli stereotipi, la serie sugli archetipi. Una serie tv – come può essere stata Romanzo Criminale, ma non solo – mostra le luci e le ombre dei personaggi, senza che siano catalogati in un discorso di bontà o di cattiveria secondo le regole sociali: quindi, un magistrato è buono perché fa il magistrato, il mafioso è cattivo perché fa il mafioso, ma magari è il marito migliore del mondo, insomma. Romanzo Criminale divenne un fenomeno culturale perché, come ne caso del Libanese, tu impari a capire che lui fa tutto quello che fa per avere l’amore della madre, tant’è che poi va a morire sotto la sua finestra, che mai si aprirà; questo crea molta empatia perché puoi assistere alla fallibilità, che è quella che rende il personaggio vicino al pubblico. Per l’evoluzione della serialità ci sono state tantissime serie meravigliose, sul filone crime di Gomorra ma non solo, o nell’internazionale Breaking Bad. Come si sta evolvendo? È interessante la domanda perché, da spettatore, siccome c’è tantissima richiesta di contenuti, credo non si faccia sempre troppa attenzione alla scrittura, che però è tutto, è proprio tutto.
La serialità nasce per la fruizione tv, o su piattaforma, ma ci sono esperimenti di programmazione sul grande schermo – esempio recente Esterno Notte di Bellocchio: come valuta, da artista e da spettatore, questo incontro tra piccolo e grande schermo?
Una grande skill del cinema, inteso come sala, che si sta perdendo, è l’esperienza di condivisione con altre persone che tu non conosci: quella cosa lì è irripetibile altrove, e io non credo sia vero che la gente non voglia andare al cinema, piuttosto credo sia un momento costruttivo per noi addetti ai lavori, utile a riflettere sul: ‘perché la gente dovrebbe andare in sala?’. Poi, le serie tv in sala sono dei tentativi, che si possono fare con titoli belli, argomenti interessanti o grandi maestri, come appunto il caso di Bellocchio, soggetti che trattano un tema storico meravigliosamente drammaturgico: è chiaro ci sia un appeal molto forte e quindi si faccia un esperimento. Penso che la serie più attesa dell’anno sia il prequel de Il trono di spade – House of the Dragron –, forse di quella si potrebbe tentare una presentazione in sala, perché unisce pubblici da piccolo schermo e da cinema puro, ma non credo sia un discorso di commistione e fusione, quindi confusione di strumenti, ma che siano tentativi per ridare dignità alla sala cinematografica.
Nella stagione imminente, il suo ritorno a casa Sky come protagonista della serie Il grande gioco: si è misurato con il mondo del calcio, con il lato più torbido delle scommesse: come si è preparato al ruolo?
Sono passati 14 anni (da Romanzo Criminale) e mi sento un po’ come il figliol prodigo che torna alla casa genitrice. La serie è molto epica: il mondo della procura del calcio fa da pretesto, è molto shakespeariana, una serie con al centro anche la famiglia e le sue dinamiche interne e sfrenate: emozioni all’ennesima potenza, parossismi, vendette, rivalse, gelosie, amori sacrificati per un principio ideologico, ma puri e mai abbandonati. Io, quando affronto un copione, per me diventa come la Bibbia: di calcio poi non so nulla, non tifo, però ho avuto la fortuna di girare a San Siro, anche nell’albergo in cui fanno il calciomercato, nel periodo dello stesso, per cui avevo a portata di mano decine di procuratori che erano lì a fare affari, a chiudere contratti; la storia è interessante da un punto di vista drammaturgico perché ti porta a mercificare l’umano, inevitabilmente, volendo un po’ come accade per gli agenti degli artisti: chi tratta materia umana come investimento, senza accezione negativa lo dico, penso abbia difficoltà a trovare un equilibrio perché dietro quel prodotto c’è una persona. E anche la serie tratta questi dilemmi profondi, in primis con il mio personaggio, Corso Manni.
Ha avuto Giancarlo Giannini compagno di set, nel ruolo di suo suocero: come è stato lavorare con un mostro sacro come lui?
È un gigante, un mito. Io sono poi come una groupie di Al Pacino, che ascolto anche in originale, ma la voce (doppiata) di Giancarlo, nella fusione con Pacino, è un assoluto. Lui mi ha parlato spesso del ruolo di Travolti da un insolito destino… Poi, con Giancarlo basta una domanda e parla lui…
La sua storia artistica con Fabio Resinaro continua, è regista della serie ma non è la prima volta che la dirige (Ero in guerra ma non lo sapevo; Appunti di un venditore di donne): qual è la vostra alchimia, perché ‘continuate a cercarvi’ sullo schermo?
Fabio penso abbia una conoscenza del tecnicismo della macchina da presa molto profonda ed è un entusiasta, gli piace raccontare storie ma anche rischiare e la sua cinematografia è un’esplorazione. Ho fatto il provino per il ruolo ma ci siamo trovati subito molto bene: la richiesta era di fare un Ray Donovan ‘de noantri’, richiesta sì ambiziosa. Corso Manni parte la storia da una condizione sfavorevole: comincia la serie tv e vengo arrestato, sono strappati i libri di brevetto da procuratore, vengo accusato di scommesse clandestine e quindi c’è tutto il tentativo sfrenato di Manni di dimostrare la sua innocenza. Sarà innocente?
È romano e Roma è la capitale del cinema, così come in assoluto la sua ‘chiesa madre’ è Cinecittà: ha ricordi connessi a questo luogo, mitico da un lato, altrettanto realistico dall’altro?
Sono dell’Alessandrino, in linea d’aria quartiere molto vicino a Cinecittà: non ho ricordi d’infanzia, ma ci ho girato varie volte, come una parte della terza stagione dei Medici. Io sono poco romantico sui luoghi, io sono più nella vita, per cui per me è uno spazio connesso al mestiere ma fa la differenza quando incontri le maestranze storiche, a cui basta dare un là, o offrire un caffè, e allora ti portano dentro le storie di Fellini, di Mastroianni. Ho profondo rispetto per il passato, però vorrei non avere riferimenti contemporanei solo esterofili, ma vorrei averne di italiani presenti: questo è il problema del nostro star system, non più quotato a livello internazionale. Piano piano, però, ci sono dei tentativi in atto, anche grazie al mercato globale.
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