Rinnegato dal padre a 12 anni, Giacomo viene convocato per il funerale del genitore dall’eccentrico avvocato Bartolomeo Sanna. L’uomo si reca al cancello della sua vecchia dimora e nota con stupore che l’avvocato lo è andato a prendere in carrozza. Strano. Ancora più strano è prendere atto che il funerale si tiene all’interno della tenuta, con un prete che parla solo in latino e una folla di contadini vestiti di nero (“amici di papà”, spiega Sanna). Sembra uno scherzo ma non lo è. Giacomo scopre con sorpresa di aver ereditato Il Regno del padre. Nei suoi terreni c’è una comunità di persone che ha scelto di tornare a una vita più umile, modesta, senza gli assilli della tecnologia, come in The Village di M. Night Shyamalan, ma con toni da tragicommedia alla Non ci resta che piangere. Non capita tutti i giorni di ereditare dei sudditi pronti a darti cieca obbedienza, prosperose ancelle ben disposte a insaponarti la schiena e soprattutto il potere di legiferare a proprio piacimento. Ma Giacomo non è affatto come il padre, che fu un prepotente autocrate tutto d’un pezzo. L’equivoco è dunque dietro l’angolo e il divertimento, grazie all’ottima prova di Stefano Fresi, assolutamente assicurato.
“Perché mio padre ha lasciato tutto a me?” si chiede Giacomo in continuazione. “Ed è da questa domanda – spiega il regista esordiente Francesco Fanuele, fresco di CSC – che parte la riflessione del film: che succede ad una persona assolutamente vuota di coraggio e di autostima se diventa improvvisamente un personaggio/modello da seguire? Forse impazzisce o forse si risolve. E dove ambientare questo delicato percorso psicologico? Ovvio, tutto dentro una tenuta agricola nella periferia di Roma, sulla Salaria, dove le persone sono rimaste agli usi e i costumi del 1100 D.C. Il progetto di lungometraggio de Il regno deriva dal mio corto di diploma del Centro Sperimentale di cinematografia. Si percepiva subito che alla vicenda serviva più respiro narrativo di quello che può dare un cortometraggio e così, presentandomi da Domenico Procacci, gli dissi che avevo in mente un film che ampliasse quello stesso impianto. L’assunto da cui parte la trama deriva da quella mitologia che Age, Scarpelli e Monicelli avevano nei loro lavori. Un grande riferimento è stato L’armata Brancaleone. Sarei falso a non ammettere queste influenze. Shyamalan invece l’ho visto e apprezzato ma chiaramente erano toni del tutto differenti. L’idea di una società potenzialmente utopica dove si cerca di creare un mondo perfetto è affascinante. A quel punto però diventa brutto tutto quello che è ‘fuori’, non può entrare la tecnologia, non possono entrare gli stranieri. La mentalità del padre di Giacomo è discutibile e lui non può condividerla, essendo un uomo moderno. C’era già Fresi nel corto che ci fece un regalo fantastico con la sua partecipazione”.
Chiediamo al regista qual è il suo personale rapporto con la tecnologia: “Sono dell’88 – dice – a cavallo tra due tempi. Quando ero ragazzo c’erano solo i modem a 56k e se ti collegavi alla rete non potevi usare il telefono. C’era il GameBoy. Ho scavallato i duemila ed è arrivata l’ondata tecnologica, che presto mi porterà a percepirmi come ‘vecchio’. Tutto è diventato veloce, anche troppo. Proprio da lì viene l’idea per il film. A volte viene voglia di spegnere tutto, andare in vacanza per una settimana e trovare nuovamente sé stessi, tornare a ritmi più pacati e riflessivi. Anche Perfetti sconosciuti ce lo insegna. Il ritorno all’ascolto è fondamentale. Non dico per sempre, ma mettere da parte la tecnologia per un po’ è necessario”.
Tecnologia che, però, ha permesso il mantenimento dei contatti durante il periodo del lockdown e permette l’uscita del film, inizialmente soltanto sulle principali piattaforme, tra cui tra cui ITUNEs, Google Play, Chily, Sky prima fila, Rakuten, CGHV, Huawei, Infinity, TIMVISION e #iorestoinSALA distribuito da Fandango e Rai Cinema dal 26 giugno.
“Chiaramente il film è nato quattro anni fa e non poteva tenere conto del Covid. Ma è anche vero che per certi versi ‘Il medioevo non è mai stato così vicino’, per questo ho inserito il relativo claim. Il lockdown ha avuto anche aspetti positivi, ci ha permesso di fermarci un attimo, però l’uomo è un animale sociale. Abbiamo bisogno di poterci vedere, toccare e abbracciare e spero che le cose, già parzialmente tornate alla normalità, si riassestino presto. Quanto al film – conclude – non posso negare che il sogno di un regista esordiente sia uscire in sala, e quando ho saputo che il film avrebbe preso solo la strada delle piattaforme ci sono inevitabilmente rimasto un po’ male. Poi ho capito i vantaggi. Ad esempio, il film sulle piattaforme ci resta a lungo, mentre in sala devi correre, spingere sul primo weekend. La sala è più spietata, la piattaforma è più amichevole. Diciamo che per me il futuro del cinema ideale sarebbe un modo di far coesistere e coincidere le due cose, senza che si danneggino con un giusto sistema di investimenti. Nulla vieta, comunque, un’uscita del film in sala tra qualche tempo”.
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