Francesca Fini: “Ofelia e la dattilografa”

L'artista ha presentato al Macro di Roma il suo lavoro più recente, Ofelia non annega, che trae ispirazione dai materiali dell'Archivio del Luce riletti in chiave surrealista e di body art


E’ stata al Watermill Center diretto da Bob Wilson e al Videoformes di Clermont-Ferrand, ora Francesca Fini ha presentato il suo recente lavoro, Ofelia non annega, al Macro di Roma in un’atmosfera particolarmente congeniale a questa opera di videoarte che attinge l’ispirazione ai materiali dell’Archivio del Luce, anche coproduttore insieme a Avvertenze Generali e Athena Produzioni. Per il presidente e ad di Luce Cinecittà Roberto Cicutto, “è la dimostrazione che l’Archivio è malleabile, utilizzabile al di là di quello che si pensa, perché abbiamo 90 anni di storia audiovisiva e il fondo è stato sempre alimentato e continua ad esserlo. Francesca Fini l’ha usato in modo originale, divertente e musicale”.

Artista e performer, legata alla body art, classe 1970, Fini è partita dall’Amleto di William Shakespeare, per dare un diverso destino a Ofelia, la giovane amata e respinta dal principe di Danimarca. Tante donne diverse per colori, lineamenti ed età vengono fuse nel video che unisce materiali di repertorio e performance realizzate all’interno dei paesaggi laziali: dalle suggestioni industriali del Gazometro di Roma al Centro Rottami di Cisterna di Latina, dalle aride cave di tufo di Riano alla meravigliosa Villa Futuristica della famiglia Perugini a Fregene, passando attraverso un giro su un bus a due piani nella Roma più sfruttata dal turismo, quella di San Pietro. Ofelia questa volta non annega ma racchiude in sé molti personaggi femminili sfruttati, umiliati e offesi, dalla donna islamica chiusa nel burqua e lapidata alla dattilografa uccisa nel crollo di una scala in attesa di un agognato lavoro, l’episodio avvenuto a Via Savoia nel 1951 da cui prese spunto Giuseppe De Santis per il suo Roma ore 11

Come si è avvicinata all’immenso patrimonio dell’Archivio del Luce e come si è orientata in questo labirinto arrivando a trovare dei materiali estremamente rari e poco visti? Mi sembra che un filo conduttore sia proprio quello dell’arte contemporanea, da Salvador Dalì a Mimmo Rotella. 
Ho usato delle parole chiave per orientarmi, scandagliando il filone dell’arte contemporanea e ritrovando pezzi della Settimana Incom su artisti come appunto Dalì ma anche Leonor Fini, i futuristi, Rotella. Poi ho usato la parola “surreale” con risultati davvero sorprendenti. Ci sono scene che mi hanno influenzato anche per costruire le performance originali. Un altro filone molto fecondo è stato quello della beat generation. In particolare il documentario di Lino Del Fra Come favolosi fuochi d’artificio del 1967. 

Cosa l’ha affascinata di quella fase storica dal punto di vista artistico?
Quella era una generazione che voleva cambiare il paese, un periodo estremamente creativo e fecondo precedente al ’68 e alle derive del movimento. Il documentario di Lino Del Fra, tra l’altro, racconta l’uso delle droghe senza censure, in modo molto libero. Poi ho usato anche immagini Opus Film sulle vite degli artisti negli anni ’50 e primi ’60, nella Roma della Dolce vita. Ad esempio vediamo il pittore Tancredi Parmeggiani che si sveglia su una panchina, senza una lira in tasca. Ci sono episodi che mi avevano raccontato i miei genitori, mio padre era artista e architetto, mia madre faceva la modella per Valentino. Sono nata nel 1970 ma questo clima è entrato nel mio dna attraverso i loro racconti.

Cosa possono trasmettere agli artisti contemporanei quelle immagini?
Ora siamo in un momento di stagnazione artistica e scoprire l’energia che c’era in questi gruppi credo che ci spinga verso un desiderio di riscatto, per uscire dal minimalismo depotenziato che io rifiuto a priori.

Tra le immagini di repertorio colpiscono quelle del crollo della scala durante la selezione riservata alle giovani dattilografe nella Roma del 1951, episodio di cronaca che ha poi ispirato il celebre film di De Santis.

Roma ore 11 l’avevo visto molti anni fa e mi è tornato in mente grazie alle immagini del Luce. Io uso molto la macchina da scrivere nelle mie performance, per me è un ingranaggio della meccanizzazione dal punto di vista femminile. Negli anni ’50 e ’60 la dattilografa era un’icona del contemporaneo. Io colleziono vecchie Olivetti e spesso le trasformo in macchine da tortura…

Lei usa spesso immagini disturbanti, dalla donna che si cuce le palpebre alle pagine scritte col sangue. Come mai?
Mi colpiscono le immagini forti perché voglio portare lo spettatore all’interno del racconto e l’empatia della sofferenza crea un legame immediato. Cerco di aprire le porte della percezione e creare disorientamento, di eliminare i filtri alla comunicazione. 

Perché Ofelia e perché Shakespeare: un omaggio nel 4° centenario?
L’idea non nasce dalla ricorrenza ma dal mio lavoro di decontestualizzazione di figure letterarie femminili, un lavoro a cui mi dedico da sempre. Cerco di riscattare queste figure: Ofelia anziché togliersi la vita si addormenta sotto un albero e si trasforma in Alice, diventa simbolo del teatro che non muore mai, dell’arte che resiste. 

Il colore rosso è il filo conduttore del film dal punto di vista visuale.
Il rosso è il colore dominante di tutta la mia opera, è la mia cifra visiva. Un rosso ciliegia che evoca il sangue, ed è collegato alla forza femminile, dal parto alla mestruazione. 

Come è stato accolto il suo lavoro all’estero?
In America erano rapiti dal fascino delle location laziali, da Canale Monterano a Roma, e hanno apprezzato lo straordinario Archivio del Luce. In Francia è stato visto dall’inizio alla fine, come un vero film, e non come una installazione. Presto sarà proiettato all’Apollo 11 di Roma. 

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21 Giugno 2016

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