Francesca Comencini: “Nella battaglia per uscire dal patriarcato”

L'autrice, che al Torino FF ha ricevuto il Premio Cipputi alla carriera, sta lavorando a un nuovo film, sulla difficoltà per uomini e donne di stare insieme fuori dai ruoli assegnati


TORINO – Francesca Comencini & il mondo del lavoro. Una lunga storia d’amore coronata dal Premio Cipputi alla carriera per la regista di film come Mobbing Mi piace lavorare (2004), In fabbrica (2007), Un giorno speciale sulla precarietà che assedia i più giovani (2012) e, più di recente, di tre cortometraggi sull’agricoltura sociale inseriti nel progetto Nuove Terre presentati qui al Torino FF: L’orto dei ragazzi, Cascina Carlo Alberto e Tenuta della Mistica, piccoli film che mostrano la capacità “terapeutica” del lavoro dei campi attraverso progetti di inserimento o reinserimento di persone svantaggiate o a rischio di esclusione. Sempre più, infatti, il tema del lavoro sconfina nella sfera personale in situazioni di precarietà e difficoltà: “È un tema ostico, ma ancora interessante, perché ha un forte impatto sulla psiche e sui comportamenti”, dice l’autrice ora al lavoro su un nuovo progetto intitolato Nella battaglia

Aveva vinto il Premio Cipputi per il suo documentario In fabbrica, ora arriva il riconoscimento alla carriera. Cosa rappresenta per lei?
Mi onora. In fabbrica è un film a cui sono molto affezionata, poi sono stata anche nella giuria del Premio durante una delle edizioni con la direzione di Gianni Amelio e ora arriva questo importante riconoscimento… Amo il festival di Torino, qui ho scoperto registe e registi che non conoscevo e che mi appassionano.

Perché è tanto attratta dal tema del lavoro?
Premetto che non faccio film a tema, cerco sempre di raccontare le persone. Tanto è vero che tutti i miei film sono vicende contemporanee. Mi piace capire le “vite degli altri”, per parafrasare un titolo famoso, e specialmente i personaggi femminili. In questo senso credo che i cambiamenti del lavoro siano una chiave per comprendere il mondo: il modo in cui si lavora, in cui si trova o non si trova un’occupazione.

In Mobbing Mi piace lavorare si occupava proprio dell’esclusione, delle nuove regole del gioco.
Quel progetto è partito dal voler raccontare una madre e donna lavoratrice quindi con un’idea intima, personale, ma anche con un aspetto politico, però trattato in maniera empatica, emotiva. Il rapporto delle donne e delle madri col mondo del lavoro è ancora irrisolto, la loro differenza non è contemplata.

Che ricordo ha di In fabbrica?

Come dicevo prima è uno dei film a cui sono più affezionata, anche perché mio padre è venuto a mancare mentre lo realizzavo ed è stato anche un modo per lasciarci restando vicini. Mentre in Mobbing la coscienza e l’impegno dei lavoratori si erano schiantati, non c’era più il concetto collettivo dei diritti e dell’identità, In fabbrica torna alle origini e ci mostra l’evoluzione attraverso materiali di repertorio con cui avevo un grande desiderio di lavorare. In effetti contiene un doppio approfondimento: sul lavoro operaio e sul lavoro del cinema. Parte dagli anni ’50 e attraversa la storia della fabbrica ma contemporaneamente anche la storia del modo di raccontare la realtà da parte dei cineasti. Oggi il lavoro è diventato sempre più difficile da raccontare: frammentato, precario e non definibile.

Mobbing Mi piace lavorare era invece una storia di finzione che approcciava proprio l’aspetto più devastante dell’essere lavoratori dipendenti in un calvario di soprusi subiti dalla protagonista, Nicoletta Braschi, contabile in una grande azienda poi demansionata e messa ai margini.

All’inizio pensavo di fare un documentario e ho incontrato molti lavoratori e lavoratrici, mi sono resa conto parlando con loro che la parte più interessante era quella indicibile, quando le persone mobizzate scoppiavano a piangere perché la crisi aveva investito anche la loro sfera più intima, il rapporto con i figli, con gli amici. Così ho deciso di fare un film di frontiera tra documentario e finzione che è il ritratto di una donna che cresce da sola sua figlia, che tra l’altro era interpretata proprio da mia figlia. 

Lo spazio bianco
, dal romanzo di Valeria Parrella, ci mostra ancora una volta un personaggio femminile solo nell’affrontare un’esperienza di maternità estrema come la nascita di un bambino prematuro.

Il mio punto di vista è femminile, anche nel parlare di personaggi maschili e a maggior ragione sulle donne. Il cinema italiano è molto indietro da questo punto di vista: le donne spesso sono funzioni che amplificano o fanno funzionare i personaggi maschili, e le registe sono poche. Come donna ho l’opportunità di esplorare un territorio inesplorato e il tema della maternità è poco esplorato dalle donne stesse. Valeria Parrella raccontava l’attesa, il non sentirsi pronta, l’imparare attraverso l’attesa e lo scoprire, solo alla fine, la possibilità di accettare questa bambina. Sulla maternità c’è molta retorica, specie da parte degli uomini. Mi interessano argomenti come la cura dell’altro, la dipendenza tra esseri umani, la possibilità di essere madri anche per coloro che scelgono di non esserlo, l’idea del limite, la non illusione, tutti aspetti contenuti nel concetto di maternità. Credo che la maternità abbia qualcosa da insegnare alla polis, al governo e anche al mondo del lavoro. Anche Carlo Giuliani ragazzo ha molto a che fare con questa riflessione.

Con la regia di Gomorra, la serie ha fatto un’esperienza completamente diversa.
E’ stata l’incursione in qualcosa che non conoscevo fatta a un livello altissimo. Sollima mi ha chiamato perché voleva un punto di vista femminile ed io ho reso protagonista un personaggio di contorno, Donna Imma, un personaggio femminile cattivo, controverso. in effetti anche lì affronto il tema del lavoro nella sua forma più perversa e devastante: nell’episodio 7 mostro l’organizzazione di una piazza di spaccio da parte di Donna Imma. E’ un mostruoso e gigantesco supermercato della droga con logiche che hanno a che fare con una forma parallela, nascosta e criminale, di occupazione. Ci sono persino i turni di lavoro. E’ stata un’esperienza elettrizzante e sono contenta di proseguire anche nella seconda stagione di Gomorra, con tre episodi.

Ha pronto un progetto per il cinema, Nella battaglia, di cui ci aveva detto che è una storia di lotta tra i due sessi.
Sì, è un progetto Fandango e parla della difficoltà di riuscire a stare al mondo e amarsi fuori da un ordine costituito con ruoli assegnati. Uomini e donne, diversi ma alla pari, cercano di stare insieme in un ordine diverso ma del tutto nuovo, questa è una delle grandi utopie del nostro tempo. Uscire dal patriarcato, un sistema in cui i ruoli dei due sessi erano assegnati, comporta dei rischi e dei contraccolpi che la mia generazione ha incarnato e vissuto. 

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27 Novembre 2015

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