CANNES – Flatform, un collettivo artistico che nasce a Milano nel 2006 e adesso vive tra il capoluogo lombardo e Berlino, e che apprezza gli sia conferita un’unica identità al singolare, firma il corto Quello che verrà è solo una promessa, in Quinzaine des Réalisateurs.
Funafuti Island, atollo nel Pacifico polinesiano, nazione di Tuvalu, base militare nella Seconda Guerra Mondiale e distante 50 ore di viaggio dall’Italia, per dare forma visiva al fenomeno marino del King-Tides, che sta impattando intensamente per via del cambiamento climatico.
Flatform come è venuto a conoscenza di questo fenomeno, quando e perché nasce il progetto?
La conoscenza del fenomeno del cambiamento climatico risale ad una decina di anni fa, leggendo un libro, Sei Gradi, molto bello, su questa visione catastrofica dell’innalzamento del riscaldamento globale. Erano tre righe, all’interno di 250 pagine, che mettevano in evidenza come in questo sperduto arcipelago di Tuvalu sarebbe avvenuta la prima migrazione totale della nazione verso altri luoghi, per impossibilità di sopravvivere lì. Il fenomeno tecnicamente avviene per aumentata pressione dovuta al surriscaldamento innaturale dell’acqua, che spinge ma non arriva dal mare, bensì dal sottosuolo. Parlare di cambiamento climatico compete ad altre persone, qui l’interesse era l’effetto e andare a mostrare il passaggio di stato, da una condizione di secchezza a quella dell’allagamento, cosa che rapportata alla poetica di Flatform è un passaggio tra le condizioni di attesa e sorpresa, già in altri progetti precedenti.
Il corto sembra girato con un unico piano sequenza: realtà o effetto tecnico? Perché questa scelta di linguaggio?
Se a lei è sembrato un piano sequenza, è un piano sequenza. Questa è la miglior risposta possibile, che ha un rapporto estremamente intimo con la poetica di Flatform: ‘quello che ti sembra è’. L’idea che dovesse essere un piano sequenza era a monte, quello che non si voleva era la narrazione per episodi, per dare un’idea di continuità, rafforzava il momento di transizione del fenomeno: grazie alla carrellata continua i momenti di passaggio di stato sono molto più impressivi.
Sembra inoltre che una tecnica di ‘dissolvenza’ sia utilizzata per passare da condizioni atmosferiche differenti. Per esempio, si passa da immagini con acqua e senza acqua, o con sole e senza sole, in pochissime frazioni di secondo.
La tecnica è stata ‘subire il fenomeno’: il film mostra immagini reali, semplicemente è stata fatta, per ottenere le transizioni da secchezza ad allagamento, una sovrapposizione, con un’infinitesimale dissolvenza per rendere leggermente fluido il passaggio.
Quanto tempo ha trascorso sull’atollo e quando ha impiegato a girare?
Il periodo trascorso a Funafuti è stato pressappoco di due mesi e mezzo, girando il piano sequenza tre volte e a distanza di giorni, per la necessità di riprendere condizioni intermedie, dalla secchezza totale all’allagamento totale: riprese che hanno preteso di essere identiche come tempi, movimenti di macchina e degli interpreti. Le riprese sono state fatte tra la fine di febbraio e la metà di marzo 2018, in uno dei due momenti annuali e apicali del fenomeno King-Tides.
Le persone del luogo conoscono il progetto? Come sono state coinvolte quelle che vediamo nel film e come lo hanno accolto?
Il rapporto con gli abitanti è stato la parte emotivamente più sorprendente della realizzazione: si è riusciti a parlare lo stesso linguaggio cinematografico; all’inizio pensavano ad un classico documentario sul cambiamento climatico, si aspettavano delle interviste. Gli è stato spiegato che questa volta si sarebbe parlato del fenomeno che agisce sulla loro isola in un modo differente e estremamente poetico, cosa in principio per loro incomprensibile, anche per il loro differente rapporto culturale con il tempo. Infine invece è stato magico, perché hanno fatto esattamente quello che noi avevamo pregato loro di ripetere e memorizzare, capendo profondamente il linguaggio cinematografico, una scoperta meravigliosa. Hanno capito di non essere ‘usati’, cosa che li ha allontanati da un prevedibile automatismo: sono 48 le persone che agiscono nel corto, e con i giovanissimi c’è stato un rapporto particolarmente intenso, l’addio all’isola è stato straziante.
Il cortometraggio avrà una destinazione museale dinamica, diverrà una video installazione connessa in tempo reale all’andamento dell’acqua sull’atollo: ci spiega questa forma di cinema espanso?
Il progetto è un’idea di Flatform, adesso in fase di realizzazione: è uno schermo motorizzato e computerizzato che si espande e si contrae in corrispondenza dell’espansione e della contrazione dell’acqua, cioè quello che avviene nell’acqua verticalmente, avviene orizzontalmente sull’immagine, che passa da quadrata a 16:9 e viceversa, muovendosi nello spazio in corrispondenza delle transizioni. La prima mondiale della video installazione sarà nei prossimi mesi in Norvegia, a Screen City (SCB), unica Biennale, insieme a quella di Ginevra, sulle immagini in movimento.
Debutto in queste ore alla Quinzaine: che significato ha per il progetto essere a Cannes?
È un giusto coronamento, è la situazione più adeguata per Quello che verrà è solo una promessa, soprattutto nello splendido nuovo corso del Festival di Cannes, che ha un carattere borderline tra arti visive, nella continua sfida delle immagini in movimento, caratteristica di questi anni.
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