FINANZIAMENTI AL MICROSCOPIO


Il cinema italiano va male. O meglio, incassa poco al botteghino. Persino quello commerciale, deputato a risollevare le sorti dell’industria cinematografica in tempi difficili. E scatta l’allarme, riproponendo l’annosa querelle sull’opportunità del finanziamento pubblico. Fin dal novembre dello scorso anno si sono moltiplicati su quotidiani, settimanali e riviste specializzate gli articoli che gridano allo scandalo. Il più delle volte, purtroppo, non distinguendo il risultato del box office dalla qualità.
Sull’Espresso Denise Pardo ha parlato letteralmente di “ecatombe” e di “barzelletta”, dal momento che non è possibile che i registi italiani siano tutti geni incompresi e il pubblico una massa di deficienti.
Il problema complessivo degli incassi è comunque troppo spesso erroneamente confuso con i risultati ottenuti dai film riconosciuti di “interesse culturale nazionale”. Qualcuno sferra attacchi a tutto campo, parlando di “Nuovo cinema italiano da buttare” (parola di Giorgio Carbone, Il borghese, 12 marzo 2000). Ma la maggior parte delle testate se la prende con l'”assistenzialismo” statale (anche se tutti ne riconoscono l’importanza per aver consentito l’esordio di autori come Nanni Moretti, Pupi Avati, Silvio Soldini, Pappi Corsicato, Mario Martone e per aver finanziato i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Silvano Agosti e tantissimi altri). Per esempio, “Flop, si gira” di Marco Giusti, pubblicato sull’Espresso del 10 febbraio 2000, o anche “Sovvenziono e me ne vanto”, intervista di Maria Simonetti alla ministra Giovanna Melandri, sull’Espresso del 25 novembre ’99, e il citato “Filmate, filmate qualcuno pagherà” di Denise Pardo, ancora l’Espresso, dell’11 novembre scorso. Su Filmaker’s Magazine di marzo Serafino Murri definisce il cinema italiano “furbetto, cialtronesco e arrogante”, e le produzioni colpevoli di perseguire il “poco ma sicuro”. In un’intervista non firmata a Lucisano, nello stesso numero della rivista, si parla del cinema di casa nostra come un “bluff, pompato dalla carità pubblica”.
Un’analisi recente (il 6 febbraio scorso) è stata diffusa dal Messaggero con “Cinema, dallo Stato fondi a fondo perduto”, di Leonardo Jattarelli, che coglie l’occasione del processo a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco per riproporre la questione: 109 miliardi erogati dallo stato nel ’99, ma l’incasso complessivo arriva appena a 18. Un’inchiesta dettagliata è anche quella di Michele Francesco Afferrante sul Sole 24 Ore in “Chi li ha visti?”. Anche qui, dopo aver presentato pro e contro e parlato di finanziamenti a pioggia, rispetto al famigerato art. 8 l’autore si chiede: “Ma serve davvero?”.

La faccenda è senz’altro complessa. I dati non sono confortanti, ma questa sorta di “caccia alle streghe”, in troppi casi fine a se stessa e non sempre avvalorata da una verifica puntuale delle cifre e delle informazioni, rischia di diventare un’inutile offensiva con inesattezze che si passano di firma in firma. Il Corriere della sera ha pubblicato un’errata corrige scusandosi con Pupi Avati per aver erroneamente sostenuto che Il testimone dello sposo ha incassato venti milioni – la cifra reale è oltre cinque miliardi – e si tratta di un dato fornito in precedenza dall’Espresso.
Altro pericolo è che l’argomento venga affrontato con ottica superficiale e priva di memoria storica. Vittorio De Sica, autore di film di culto come Ladri di biciclette e Sciuscià tuttora considerati dalla critica internazionale come un biglietto da visita del cinema italiano, negli anni ’50 veniva attaccato con l’accusa di diffondere “messaggi dal sapore pauperistico, populistico, estremamente retorico”. Umberto D. ebbe un contributo ministeriale di 16 milioni di lire, contro i 216 di Don Camillo, e subì la nota lettera dei panni sporchi da Giulio Andreotti, allora Sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
La confusione sulla materia è grande. Chi sa esattamente qual è la differenza tra fondo di garanzia e articolo 8? Perché parlare di carità pubblica, quando ogni stato moderno avanzato possiede un fondo per la cultura? Perché fare polemica sui film, se i soldi del governo vanno anche a festival, fondazioni, istituti per la preservazione e diffusione del cinema, nonché all’opera e al teatro? E sono tutti “fondi a fondo perduto”. Così si rischia che al posto di un’informazione sollecita e utile, questo parlare e sparlare si trasformi in un banale attacco improduttivo. Se lo Stato eroga finanziamenti pubblici per il potenziamento e lo sviluppo della produzione e la produzione non soddisfa le aspettative, perché mettere in dubbio l’erogazione dei soldi anziché analizzare i motivi del fallimento? “Sono stanca” ha commentato la ministra Melandri “di sentire parlare di crisi. Anche se bisogna riconquistare il mercato, non mancano né idee né protagonisti. Il problema è arrivare al grande pubblico. Ci sono bei film proiettati in poche sale e per poco tempo. Ma il cinema italiano possiede ancora molte carte da giocare. E tutte buone”.
Vediamo come stanno davvero le cose.

autore
15 Maggio 2000

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