BARI – Quella di Franco Percoco – Il primo mostro d’Italia è una storia che arriva al cinema dalla realtà, un vissuto che fa da fondamenta imprescindibile per la considerazione e l’indagine della psiche dell’essere umano tutto, al di là dello specifico. Le premesse biografiche della vicenda reale sono chiavi che cercano di aprire le porte della mente, un microcosmo non spalancato su una stanza interiore luminosa, tutt’altro, ma necessarie a fare una lettura del personaggio che superi l’intrattenimento.
Percoco, in Concorso al Bif&st, è diretto da Pieluigi Ferrandini e interpretato da Gianluca Vicari, tratto dal romanzo Percoco di Marcello Introna.
Nella vita vera, Franco Percoco (Bari, 5 marzo 1930 – Torino, 14 febbraio 2001), nella notte di distruttiva mareggiata tra il 26 e il 27 maggio del ‘56, a Bari, al numero 12 di via Celentano, ha sterminato la famiglia con un coltello da cucina: tutto questo non viene visto, non viene detto. Convive con i cadaveri – mamma, papà, un fratello – per dieci giorni: tutto questo viene lasciato sottilmente a intendere.
Ferrandini, se lo spettatore non conoscesse la strage reale, dal film non trapela, c’è solo un sospeso sinistro. Senza un prima, senza un dopo. Perché questa scelta di racconto? Perché nessun contatto con la realtà della cronaca?
Di fatto è la cronaca schietta che parla. Visto che Percoco alla fine viene percepito come un mostro dall’opinione pubblica, non tanto per aver commesso la strage famigliare quanto per aver convissuto con quei cadaveri per nove notti e dieci giorni in casa, focalizzo l’attenzione sui giorni del mostro, cioè sulle giornate che hanno fatto sì un ragazzo in preda ad un raptus, con le sue motivazioni precise, non ha deciso di scappare, di tentare una vita altrove, mentre invece nasce dentro di lui un mostro. Un mostro di rivalsa, rispetto a un mondo che sa non gli sarà più concesso, perché in maniera definitiva ha ricevuto l’ultima bocciatura all’università, con la laurea quale passepartout per accedere a un livello di vita che era quello a cui avrebbe potuto accedere. Questo insuccesso ennesimo, e solo lui sa quanto gli abbia chiuso una vena nel collo, fa sì che uccida proprio le persone che ama di più, con cui condivide lo stesso obiettivo: quello che ho scelto di fare io è partire dal primo momento in cui nasce il mostro, inquadrando prima lo scolatoio, in cui scorre il sangue, così lo spettatore è portato a pensare sia il sangue dei parenti, e invece no. Io non creo di fatto sospensione, parto dalla nascita del mostro e finisco con le parole che effettivamente Percoco pronunciò ai carabinieri: ‘aiutatemi’, perché il mostro era scomparso, perché erano finiti i soldi, che sono il carburante di quello status sociale. È come se io accendessi un faro su Percoco e tentassi di seguirlo in diretta, senza esprimere giudizi, senza didascalismi. Tutto ciò che si vede è realmente accaduto.
Vicari, come si entra – da attore – nella mente di uno stragista famigliare? Non la vediamo compiere atti feroci, ma inquietanti sono per esempio le sequenze in cui crea soluzioni profumate o acquista casse di deodorante d’ambiente per coprire l’odore acre della casa.
Credo che un po’ di Percoco mi appartenga: la regia di Ferrandini ha montato dei fuori scena, per esempio, dopo uno stop, quando cercavo di rientrare nella parte, una specie di training; quello era sì un metodo per entrare nell’atmosfera, ma dall’altra sembrava lo stessi facendo per creare il mood rispetto alla scena della crepa sul muro. Mi sono sforzato molto atleticamente, abbiamo fatto uno sforzo madornale sulla fisicità del personaggio: prima di entrare nella stanza con i morti, per vedere la famosa crepa nel muro, ho fatto una respirazione un po’ affannata, qualche flessione, e durante la parte in cui m’accorgo della crepa sono realmente svenuto e anche questo è stato messo in scena.
Ferrandini, che lavoro è stato fatto sulla recitazione?
È stato un lavoro importante fatto insieme a Gianluca, soprattutto bloccando metà volto: lui ha tutta la parte superiore del viso completamente ‘bloccata’ e gli ricordavo sempre che l’espressione dovesse essere quella di lui che vedeva i cadaveri. La parte di sotto del viso, quella dell’ipocrisia perché della parola, gli permette di esprimere addirittura dei sorrisi: è stato un lavoro metodico, perché era importante che la sua dicotomia facciale ci desse sempre il senso di ambiguità, perché lui non è un mostro, convive con un mostro.
Vicari, come, partendo invece da una ricerca estetica sofisticata, dagli accessori per esempio, ha costruito la figura del Percoco dandy?
Non ci sarebbe stata questo questo ‘assemblaggio’ senza l’aiuto di Pierluigi, con cui appunto abbiamo molto lavorato sulla fissità del personaggio. Abbiamo lavorato sul suo modo di fumare fino a come sorrideva, avendo sulla fronte la fissità del momento in cui uccide i genitori, ed è quella la parte reale, perché lui rimane anche un po’ stranito dal suo gesto. Ferrandini, l’estetica raffinata ed elegante del film gioca a contrasto con l’orrore del gesto.
Come ha costruito, calibrato, i pesi, per ottenere la convivenza di bellezza e orrore appunto?
È una delle caratteristiche della classe borghese. Trattando il film di un’ascesa sociale mal riuscita, quell’estetica mi ha aiutato a dare il senso dell’orrore senza dover ricorrere all’esibizione di sangue, laddove però alla fine c’è, anche perché non volevo si potesse pensare che non fosse avvenuto. Suona come una consacrazione alla fine e l’uccisione è descritta nel film, con la sequenza delle ondate iniziali del mare, che hanno creato una crepa, come quella che metterà in forse tutto il folle progetto di Percoco.
Vicari, cosa l’ha affascinata e cosa inquietata del personaggio, e come questi sentimenti hanno concorso nel suo lavoro?
Il fascino e l’inquietudine andavano di pari passo, perché sono stato affascinato dalla scoperta della diversità di espressione, motivo di inquietudine: è stato molto difficile entrare nel personaggio, quanto uscirne.
Ferrandini, che lavoro ha fatto per provare a entrare nella vera psiche di Franco Percoco, per poi restituirla in parte nel film?
Al di là del romanzo, non ho potuto prescindere dagli atti del processo, in cui ci sono ben due interrogatori: ci sono 300 pagine di perizia psichiatrica, in cui lui racconta la sua vita, come la intenda, arrivando a dire che si possa riassumere come ‘una bella banconota falsa’, quindi c’era una grande consapevolezza di sé, che tipicamente non appartiene agli psicotici, è una malattia sociale la sua. È questo che lo rende così vicino a noi: quando si ha a che fare con un mostro distante da noi è anche più facile accoglierlo perché c’è una zona di distacco che corrisponde a una zona di sicurezza, che questo film non crea. Questo film chiede una mano allo spettatore, è un vero e proprio engagement nella misura in cui, volutamente, la sceneggiatura non ricorre a stratagemmi narrativi che facilitino la comprensione.
Sempre nella vita vera, il padre di Franco Percoco era ispettore delle ferrovie, la madre una casalinga, il fratello maggiore Vittorio cleptomane e il minore Giulio soffriva della sindrome di down. Franco, a 17 anni, viene bocciato al liceo scientifico, poi si iscrive a tre facoltà universitarie diverse senza successo: nasconde tutto alla famiglia, che ha riposto grandi aspettative, caricandolo di troppe responsabilità. Gli viene diagnosticato un esaurimento nervoso: Franco è certamente borderline, non solo psichicamente, infatti tutta la sua vita scorre su un confine, tra piccola e grande borghesia, tra reale e possibile. Franco frequenta abitualmente i bordelli e si innamora di una prostituta napoletana Maria: otto mesi prima della strage, si fidanza così una quindicenne, Tina Tezzi (Rebecca Metcalf). Dalla mattina dopo la strage, Percoco racconta che la famiglia è partita per una vacanza termale a Montecatini: dopo qualche giorno i coinquilini avvertono odore pungente e bussano per chiedere spiegazioni. Franco fugge a Ischia: viene arrestato e ricondotto in Puglia.
Quella di Franco Percoco è la storia del primo stragista italiano del ‘900, processato e condannato all’ergastolo nel ‘58: in poco più di 20 anni esce per buona condotta, dopo alcuni periodi nel manicomio criminale di Aversa, dal quale viene dimesso perché giudicato sano di mente. Si trasferisce prima a Napoli e poi nel 1981 a Torino, dove trova lavoro come impiegato e si sposa, senza mai avere figli. Muore a Torino il 14 febbraio 2001.
Dopo l’arresto, la “Gazzetta del Mezzogiorno” pubblica la confessione resa da Percoco al commissariato di Napoli: il giorno dopo, il giornale subisce un provvedimento di sequestro; le copie vengono ritirate porta a porta e dalle edicole con l’accusa di aver diffuso materiale raccapricciante. Il direttore della testata, Luigi de Secly, e il corrispondente da Napoli, Ciro Bonanno, sono condannati a sei mesi di reclusione: assolti quattro anni dopo, non sono mai stati reintegrati. La casa dei Percoco non è stata mai più abitata, il palazzo è stato abbattuto negli Anni ‘80, sostituito da un’attività commerciale.
Nel cast anche Gegia, la signora Leuzzi, una vicina di casa, e la straordinaria partecipazione di Michele Mirabella, nel ruolo del Dott.Chiana.
Percoco – produzione Altre Storie con Rai Cinema, con il contributo di Apulia Film Commission e Regione Puglia – esce in sala il 13 aprile in anteprima e poi il 17, 18 e 19, distribuito da Altre Storie.
Tra i film italiani premiati il regista Ivan Gergolet e gli interpreti Paola Sini e Orlando Angius, per quelli internazionali la regista Enen Yo e gli interpreti Ane Dahl Torp e Thröstur Leó Gunnarson
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