Fernanda Valadez, l’inferno sulla frontiera del Messico

Sin señas particulares, opera prima della giovane regista e produttrice Fernanda Valadez, ha aperto il 38° Torino Film Festival


Sulla ‘frontera’ tra Messico e Stati Uniti c’è l’inferno. Non in senso metaforico ma letterale. Il Muro di Trump e i respingimenti e le deportazioni, ma anche la violenza efferata delle gang messicane assetate di sangue che assaltano e massacrano chiunque capiti sul loro cammino sono al centro di Sin señas particulares, opera prima della giovane regista e produttrice Fernanda Valadez che apre il 38° Torino Film Festival, dopo il forfait di Ballo ballo di Nacho Alvarez.

Un film quasi senza redenzione che intreccia i destini di vari personaggi: Magdalena (Mercedes Hernández), una donna povera e semianalfabeta che arriva dallo Stato di Guanajuato per cercare il figlio Jesús (Juan Jesús Varela), partito con l’amico Rigo verso l’Arizona e mai arrivano a destinazione. Poi Olivia (Ana Laura Rodríguez), una dottoressa borghese che ha perso da anni tracce del figlio e ancora non si rassegna alla sua morte. Infine Miguel (David Illescas), un giovane appena deportato dagli Stati Uniti che sta cercando sua madre rimasta in un piccolo villaggio.

Ci sono scene impressionanti, come la ricognizione dei cadaveri senza nome, avvolti in sacchi della spazzatura e ammassati dentro depositi di fortuna, e c’è un’escalation di violenza che dà conto della drammatica situazione del Messico con numeri impressionanti di persone rapite e massacrate, cadaveri ritrovati nelle fosse comuni, a volte carbonizzati. Sin señas particulares, già in concorso al Sundance Festival, è tra l’altro un film tutto al femminile, scritto dalla regista con Astrid Rondero, anche produttrice.

Come ha lavorato sullo stile e sull’evoluzione della storia, che parte con un tono più intimista e lungo il percorso diventa quasi un thriller demoniaco, con immagini scioccanti.

È stata una scelta voluta quella di fare un road movie, in cui il viaggio fisico diventa esperienza emotiva, mano a mano che va avanti sempre meno naturalistico e più interiore. Della violenza vediamo soprattutto l’impatto sui personaggi: una madre che ha perso il figlio, un figlio che ha perso la madre, un terzo personaggio sopravvissuto a un agguato che racconta.

Vi siete documentate sui massacri?

Il processo di ricerca è cominciato molti anni fa. Abbiamo attinto a numerosi documenti, anche in video, perché molti giornalisti, rischiando la vita, hanno documentato queste violenze. Prima ho girato un corto e solo dopo mi sono sentita matura per allargare il discorso. Non volevo fare un documentario su questo tema, perché mi sembrava di invadere le persone che hanno vissuto queste esperienze, di sfruttarle.

I dati sulle violenze in Messico sono impressionanti. Tra l’altro, vedendo il film, ho pensato ai femminicidi di Ciudad Juarez. Sono violenze che travalicano i moventi criminali per sfociare nel puro sadismo, nella persecuzione.

La violenza in Messico è scioccante per quantità ma soprattutto per qualità. In varie società ed epoche storiche si è assistito a picchi di violenza e in questi casi la demarcazione tra vittima e carnefice diventa molto sottile. In Messico condizioni di ingiustizia sociale e di povertà e la mancanza di un ordine hanno creato una situazione che non esito a definire di genocidio. Abbiamo pensato a casi come il Rwanda e persino all’Olocausto, perché al di là dei motivi concreti – il traffico di armi, di droga, di donne, di migranti – resta una domanda senza risposta. Perché uccidono?

Uno dei fattori di squilibrio è l’immenso flusso di migranti verso gli Stati Uniti che non riescono a passare la frontiera. Pensa che la nuova presidenza americana possa portare a un miglioramento della situazione?

Le relazioni tra Messico e Stati Uniti sono da sempre complicate. Certo, la speranza che Joe Biden sia migliore di Trump c’è, ma la crisi umanitaria è gravissima. Ci sono bambini che vengono separati dai genitori, ci sono migranti che vivono sulla frontiera in condizioni precarie in attesa di passare il confine e la pandemia ha reso tutto più difficile e disperato.

E’ un film girato da una troupe tutta di donne. Come mai?

E’ stata una scelta cosciente ma anche molto naturale. Con Astrid ci conosciamo dai tempi della scuola di cinema e via via abbiamo aggiunto altre figure al nostro gruppo. Le donne sono più flessibili e in gamba degli uomini perché devono fare il doppio della fatica, specie in Messico, dove gli ostacoli sono tantissimi e c’è solo un 20% di donne che esce dalle scuole di cinema. 

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21 Novembre 2020

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