Tratto dal romanzo culto I Wonder When You’ll Miss Me di Amanda Davis, scrittrice americana precocemente scomparsa in un incidente aereo, arriva ad Alice nella città Mi chiedo quando ti mancherò, secondo lungometraggio di Francesco Fei, che aveva fatto il suo esordio nel 2006 con Onde, bella riflessione sull’immagine e sull’estetica che passava attraverso la storia d’amore tra due diversi. E di diversità torna, in qualche modo, a parlare nel suo nuovo film, una commedia drammatica, intrisa di realismo magico e poesia, che parla di confini fisici e mentali, ma riesce a farlo con particolare leggerezza ed ironia. Protagonista la diciassettenne Amanda, bullizzata dai compagni di scuola e con evidenti problemi di rapporto con il proprio corpo. Per affrontare il mondo ha creato un’amica immaginaria, cicciottella, esuberante e politicamente scorretta, che la guida nella più difficile delle sfide: crescere e impadronirsi della propria vita.
Il film, che arriva nelle sale con Istituto Luce Cinecittà, affronta temi importanti, dal rapporto col corpo, all’emarginazione, al bullismo, alla difficoltà di trovare la propria strada, che lo rendono particolarmente adatto anche ad un pubblico giovane. “La sfida è riuscire a dare al grande pubblico un prodotto abbastanza sofisticato, ma con una certa leggerezza che possa affascinarlo”. Importante nella narrazione l’elemento sonoro, con le musiche della cantante indie rock americana EMA. Nel cast Beatrice Grannò, Claudia Marsicano, Dragan Misviski, Marusa Maier, Federica Fracassi, Riccardo Alemanni.
Il film è tratto dal libro I Wonder When You’ll Miss Me di Amanda Davis. Cosa l’ha colpita del romanzo, tanto da volerne fare un film?
Il fatto che fosse un romanzo che trattava di argomenti importanti – il bullismo, la possibilità di affermarsi, il disagio mentale – e riusciva a farlo non con un tono cupo, ma molto comunicativo e poetico. Un romanzo di formazione che non indugiava nel malessere ma lo raccontava con una sorta di realismo magico.
In cosa si differenzia il film dal libro?
A grandi linee lo rispetta, ma il romanzo era un po’ più complesso e il percorso della protagonista durava più a lungo nel tempo. Tra le differenze, il circo del romanzo è un circo di animali mentre nel film ho sempre immaginato un circo di artisti di strada; cambia poi l’ambientazione, nell’uno americana, nell’altro si snoda tra Milano e la Sardegna. Nel percorso di formazione del libro, inoltre, lei diventava una trapezista e, anche quando raggiunge la consapevolezza di sé, non torna comunque più a casa.
Hanno collaborato con lei alla sceneggiatura anche Chiara Barzini e Luca Infascelli.
Abbiamo trovato insieme la chiave per fare un sunto essenziale della storia, anche rispetto alle possibilità narrative del film che è un prodotto indipendente. Chiara e Luca mi hanno seguito nel progetto per ben otto anni, qualcosa di raro. Questo progetto ha avuto sempre grandi difficoltà produttive (ci ho messo dieci anni a realizzarlo) ma anche grande passione da parte delle persone coinvolte.
Il nome della protagonista del film, Amanda (nel libro Faith), è una dedica all’autrice?
Esatto. La storia di Amanda Davis è già di per sé un film: è morta in un incidente insieme ai suoi genitori sull’aereo che il padre aveva affittato per il tour americano di promozione del libro. La famiglia, poi, e il suo ex ragazzo sono stati molti carini nel darci una serie di riferimenti per realizzare il film.
Che cosa rappresenta per Amanda la carovana colorata degli artisti del circo, che per lei diventerà poi il luogo del riscatto?
Per lei il circo è una seconda famiglia, il mondo dei diversi per eccellenza in cui si identifica, perché anche lei viene considerata un po’ diversa e stramba. All’interno di questo nucleo trova un’accoglienza, che avviene a piccoli passi, che non ha mai avuto nell’ambiente della scuola che frequentava prima. In questo ambiente trova una sorta di protezione, momentanea, che le serve per compiere il percorso di formazione che la porterà a tornare a casa.
Amanda ha difficoltà a rapportarsi con il suo corpo e con gli altri, sia prima che dopo la perita di peso, perché? Come avviene, poi, l’allontanamento dal suo alter ego immaginario?
Amanda è una ragazza bullizzata che, in quanto donna, ha delle pulsioni verso l’altro sesso ma si è sempre vista brutta. Per questo non basta automaticamente la perdita di peso, ma prima di accettarsi deve compiere un percorso che è soprattutto di fiducia. Finché non ti fidi di qualcuno è difficile fidarti di te stessa. Il film non racconta una storia d’amore ma una storia di formazione, la relazione col ragazzo le serve per accettare il suo corpo e per accettarsi.
Che cosa rappresenta, invece, l’amica immaginaria, cicciottella e politicamente scorretta?
Per me è la chiave narrativa del film, quel realismo magico di cui parlavo. Lei è l’amico immaginario non cupo, ma magico e surreale. Il film l’ho fatto soprattutto per il suo personaggio, perché mi permetteva di raccontare vari temi – il rapporto col corpo, l’emarginazione, il bullismo- in questo modo leggero.
Un ruolo importante all’interno del film è affidato alle musiche, realizzate dalla cantante indie rock americana EMA.
L’aspetto musicale è un elemento narrativo molto importante. EMA viene dall’elettronica ma è anche una cantante indie molto famosa negli USA che avevo vista dal vivo nel 2013 al Circolo degli Artisti. Ho sempre pensato che le canzoni del film dovessero avere un approccio elettronico, per raccontare un po’ la devianza mentale della protagonista. Non volevo fare un film sulla schizofrenia, ma ho delegato alla musica la cura di questo aspetto.
A differenza del suo lavoro precedente, Onde, questo film affronta con una maggiore leggerezza tematiche impegnative come bullismo e corpo. Aspetto che lo rende particolarmente adatto a un pubblico giovane.
Il mio primo era un film d’autore, destinato forse a un pubblico più elitario. Mi chiedo quando ti mancherò è invece una scommessa, quella che possa piacere al grande pubblico soprattutto quello dei più giovani. La sfida è riuscire a dar loro un prodotto abbastanza sofisticato, ma con una certa leggerezza che possa affascinarli.
Per la fase di post-produzione del film ha lanciato una campagna di crowdfunding in rete, ci racconta com’è andata?
Abbiamo ottenuto 15mila euro attraverso la piattaforma Kickstarter, siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo che ci eravamo preposti ma è stato un lavoro duro e impegnativo, anche da un punto di vista di investimento, perché passa da un accurato lavoro sui social che non si può improvvisare. In Italia, in realtà, il crowdfunding non è ancora molto sviluppato e funziona bene, generalmente, solo se dietro al progetto c’è il mondo delle associazioni, che noi non abbiamo cercato anche perché non volevamo etichettare il film e farlo diventare una pellicola sul bullismo o sulla malattia mentale.
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