ORTIGIA – “Ho insegnato quest’anno al Centro Sperimentale con allievi che all’inizio volevano fare cinema di finzione, ma poi hanno poi trovato nel cinema del reale una via di espressione molto più vicina a loro, perché possono sperimentare. È lo stesso motivo per cui anche io ho iniziato a fare documentari”, così la regista Federica Di Giacomo, all’Ortigia Film Fest con il suo ultimo lavoro, Il Palazzo.
Che cosa intendeva raccontare con Il Palazzo?
Un corpo a corpo tra cinema e realtà. Un gruppo di amici coltiva il sogno del cinema e occupa un palazzo al centro di Roma. Ci sono arrivata per caso, mi ha colpito che fosse una realtà completamente separata dal resto della mondanità romana, con dentro persone chiuse tutto il giorno a immaginare scene di cinema e teatro senza mai uscire. Una gabbia dorata. Quando il gruppo subisce il lutto del più carismatico di loro si innescano una serie di domande, credo universali, tra bilanci sulla propria vita, sogni fatti da giovani e riflessioni su quello che abbiamo o non abbiamo portato avanti.
Il senso del film è che quando ci si chiude in un proprio mondo, più o meno artistico, e si rimanda il confronto con la realtà, quest’ultima può diventare deflagrante?
Proprio così, volevo fare un film anche sul fallimento, su una generazione che ha vissuto tutta la vita nella precarietà, specie chi ha fatto un lavoro artistico o culturale. Quali domande ci si pongono in un momento in cui tutto si blocca?
Dalla sua esperienza di insegnante, riscontra interesse da parte delle nuove generazioni verso il documentario?
Parecchio, hanno capito che c’è bisogno di mettere in discussione le formule narrative, creare un nuovo stile andando sulla strada, confrontandosi con l’altro da vicino. Il risultato è un cinema del reale molto vivo, che respira e si muove abbattendo le barriere della narrazione classica e usando armi come confronto, ragionamento, riflessione.
Come vede la situazione delle donne alla regia in Italia?
Io sono arrivata tardi alla regia, dopo altre esperienze artistiche soprattutto di teatro. Ho vissuto gradualmente il rapporto con l’istituzione, ma mi sono comunque resa conto che creare un vero cambiamento in Italia è difficile, anche in termini di linguaggio e di rispetto con cui si trattano le donne che fanno questo mestiere. C’è un grande lavoro da fare, c’è un sottile manto di disuguaglianza che diventa poi visibile quando vedi la disparità numerica di chi ottiene finanziamenti, o chi è presente nei festival, c’è un circuito di disuguaglianze. Altrove è diverso, sono appena stata in America dove l’attenzione alle cosiddette ‘minoranze’ è altissima, anche estrema, perché ormai ci sono regole su tutto, ma i risultati si vedono, molte più donne dirigono e producono in America.
Idee per un miglioramento del contesto italiano?
Mi chiedo se debba esserci anche da noi una regolamentazione in questo senso. È vero che le quote rosa sono umilianti, ma è anche vero che al sistema vada data una scrollata: la lentezza con cui si riconosce il valore di tantissime autrici, registe, direttrici della fotografia e foniche in Italia è esasperante, priva il cinema di uno sguardo diverso.
Federica, sta scrivendo un nuovo documentario?
Sì, proseguo nell’intento di fare film che raccontino quello che sta intorno a noi con sguardo critico. Non è sempre facile restituire sullo schermo il momento in cui siamo, il nostro Paese: scrivo osservando la realtà e augurandomi di far emergere domande. Mi piace creare una relazione forte con quello che racconto, la realtà può sfuggire dalle mani ogni momento, io parto dalla storia che incontro e la stratifico di significati, se sento che vibrano e risuonano con quello che m’interessa davvero raccontare e allora vado fino in fondo.
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