Favino: “I bambini, vittime silenziose degli anni di piombo”

Padrenostro, terzo film di Claudio Noce, in concorso a Venezia, prende spunto dalla vicenda del padre del regista, il vicequestore Alfonso Noce, vittima nel 1976 di un attentato


VENEZIA – Una storia personale e tragica diventa lo spunto per parlare di quella generazione di bambini che ha subìto il clima degli anni di piombo senza comprendere quello che stava accadendo ma vivendone tutta l’ansia e la precarietà. Padrenostro, terzo film di Claudio Noce, in concorso a Venezia, prende spunto dalla vicenda del padre del regista, il vicequestore Alfonso Noce, vittima nel 1976 di un attentato in cui rimase ferito e in cui persero la vita il poliziotto Prisco Palumbo e il terrorista dei Nuclei Armati Proletari Martino Zichittella.

Il regista, che aveva all’epoca appena due anni, è cresciuto con il senso di angoscia sotterranea prodotto da questa esperienza. E quando l’ha raccontata a Pierfrancesco Favino è nata l’idea di farne un film, autobiografico ma anche in grado di restituire il vissuto collettivo da entrambi i lati della barricata, quello di vittime inconsapevoli e silenziose sacrificate sull’altare di una lotta all’ultimo sangue. Noce – già autore di Good morning, Aman e La foresta di ghiaccio – nella sceneggiatura scritta con Enrico Audenino, sviluppa in particolare il personaggio di suo fratello maggiore, che all’epoca aveva 11 anni e che, insieme alla mamma, fu testimone oculare della sparatoria e vide morire l’attentatore. Nel film è Valerio (Mattia Garaci), bambino solitario e con una grande passione per il disegno. Non va molto d’accordo con i compagni di scuola, tanto da avere un amico immaginario. Dopo il ferimento del padre Alfonso (Favino), il piccolo è angosciato e vulnerabile, fino all’incontro con Christian (Francesco Gheghi), un ragazzino poco più grande di lui, un ribelle che vive per strada e che lo coinvolge in avventure trasgressive e rocambolesche. Ma che nasconde un segreto. 

“La figura forte, magnetica, eroica – dice Noce parlando di suo padre – assurge ad archetipo di un’intera generazione di uomini per i quali le emozioni erano percepite solo come debolezza e obbligate a essere camuffate da silenzi. Nel dicembre del 1976, ero troppo piccolo per capire che quell’affanno avrebbe abitato dentro di me per molto tempo. Non sono mai riuscito a dirglielo. Scrivere questa lettera a mio padre tracciando i contorni di una generazione di bambini ‘invisibili’ avvolti dal fumo delle sigarette degli adulti non è stato facile; provare a farlo mutando le parole da private in universali è stata una grande sfida come cineasta e come uomo. Come diceva Mozart, subito dopo Dio viene Papà”.

Un percorso doloroso in cui ha avuto al suo fianco Favino, anche produttore e convinto sostenitore del film (la figlia Lea ha il ruolo della figlia minore del protagonista). “Nella storia di Claudio ho visto anche me e mio padre, la mia infanzia, gli odori, i sapori, i silenzi, le stanze della mia casa. Eravamo quei bambini che quando andavano a letto non esistevano più, si dava per scontato che non sapessero, che non capissero, ma noi sbirciavamo di nascosto gli adulti. Il rapporto tra padre e figlio è un mistero che ci riguarda tutti”.

Per l’attore di Hammamet e Il traditore questo non è esattamente un film sugli anni di piombo. “Piuttosto volevamo raccontare l’infanzia. Il messaggio politico semmai sta in questo: noi cinquantenni, non avendo partecipato a grandi eventi storici, siamo stati messi in un angolo. Non ci sentiamo antagonisti, anzi siamo la prima generazione laica, capace di produrre un cinema e una letteratura che non hanno bisogno di schierarsi da una parte o dall’altra in modo categorico, piuttosto ci affidiamo alla creatività dell’infanzia, a quel bisogno di tenerezza e di inclusione. Siamo educati e silenziosi, ma ora basta dover chiedere il permesso. Non è colpa nostra se siamo nati dopo”.

Per Noce la paura è un tema che il film affronta in maniera profonda. “Volevo superare questa paura attraverso meccanismi molto semplici, legati ai sentimenti e al dialogo. Nella mia famiglia nessuno ha mai chiesto ‘come stai’, eppure avevamo subìto un abuso. Mio fratello vide morire una persona. Sul set ho sentito un grande calore da parte di tutti, mi hanno aiutato e protetto per farmi raccontare questa storia così drammatica”. Si parla anche di rimozione, di non detti. Lo spiega bene Barbara Ronchi, che ha il ruolo della mamma: “Gina decide di fare i conti con la paura e di coinvolgere il marito in questa apertura. Ammettiamolo, almeno tra noi, che abbiamo paura, pur proteggendo i nostri figli. Che poi, se il genitore mostra le sue emozioni, anche il figlio diventa libero di mostrarle. Non c’è niente di cui vergognarsi”. Per Favino questa volta un ruolo tutto in introspezione, senza trasformazioni fisiche. “E’ stata una ricerca diversa rispetto al solito. Ho ritrovato mio padre e una tenerezza che la sua generazione non sapeva dare. Quei dettagli della vita quotidiana che sostituivano gli abbracci. Da bambino facevo fatica ad affrontare quel mondo. Poi Alfonso è un personaggio che è sempre lì anche quando non c’è. Quegli uomini che non avrebbero mai fatto vedere la loro sofferenza, convinti che in quello stava l’educazione alla forza da dare ai figli maschi. Questo film è una lettera d’amore finalmente spedita”.

Padrenostro è in uscita il 24 settembre con Vision Distribution. Per Nicola Maccanico: “Questo festival, così coraggioso, ha senso se riusciamo a portare poi i film agli spettatori. Venezia segna il rinascimento del cinema proprio mentre le sale ricominciano ad essere frequentate con Tenet. Bisogna ripartire un passo alla volta e noi lo facciamo”.

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