CANNES – Le livre d’image, un blob, futurista. Distorce, sovraespone, ritaglia. Sfoca, ammutolisce, colora.
Jean-Luc Godard mette in scena così Le livre d’image, le immagini del libro della sua coscienza critica, un manifesto finale che usa e omaggia il cinema, sfruttato per lo scopo; uso e omaggio che fa anche al digitale e all’ingegneria del suono, spinti a più riprese fino all’eccesso, in una struttura a capitoli, esattamente come un libro.
Le livre d’image, un testamento intellettuale e sociale.
L’Italia c’è, con Pasolini e Fellini, con la scena di Salò o le 120 giornate di Sodoma in cui le persone, carponi e nude, come cani vengono portate al guinzaglio, sequenza che Godard manipola, presentando solo qualche istante originale e poi imponendo il nero totale dello schermo, vivo solo di suono: nonostante la violenza della sequenza, la stessa senza immagine – fatta qui solo di “rumore” – se possibile arriva anche più drammatica. Poi, La strada, in qualche istante che quasi sfugge, ma che permette giusto di percepire Giulietta Masina in uno dei suoi personaggi indubbiamente più sociali e politici, per questo a pennello in questo Livre d’image. E c’è ancora, l’Italia, con Monica Vitti, anche lei allora su quella Croisette sessantottina, che il maestro francese mostra interrompendo bruscamente delle immagini del Peppermint Frappé di Saura, proprio per mostrare la dimissioni di alcuni giurati, tra cui lei.
Jean-Luc Godard torna a Cannes 50 anni dopo quel Maggio francese che vide il Festival vivere una storia tutta connessa al momento in atto e Le livre d’image non è scollato da quel momento, da quella esperienza, da quel sentire, che Godard stesso visse in prima persona proprio sulla Croisette: il 18 maggio 1968, proprio lui, insieme ad altri cineasti (Truffaut, Lelouche, Polanski …) usava Cannes come palcoscenico di protesta contro l’allora ministro della cultura, reo di rimuovere il direttore della Cinémathèque. Fu quella anche l’occasione per fondare la Société che dall’anno a seguire sarà per sempre la Quinzaine des Réalisateurs.
Godard c’era e Godard c’è, 50 anni dopo. Indubbiamente coerente con il suo film, con la contemporaneità, con l’idea di cinema espanso per cui tutto ciò che è immagine in movimento è anche cinema, il regista ha tenuto la conferenza stampa via FaceTime da Rolle (in Svizzera, dove vive), spendendosi con generose, sarcastiche e sensibili risposte con cui ha raccontato il film. Una situazione quasi surrealista e al tempo stesso iperrealista, in cui la sala delle conferenze stampa ha potuto video-chiamare il regista a casa e ciascun giornalista interessato a fare la propria domanda ha parlato vis-à-vis con Godard, in una maniera del tutto confidenziale, familiare, unica a suo modo, con la sola differenza che questa chiamata a due aveva un pubblico, i colleghi come spettatori. Un momento indimenticabile, figlio legittimo del proprio tempo, ancor più se si pensa che ad aver animato questa modalità è stato un uomo di quasi 88 anni, con lo spirito e la confidenza di un bambino rispetto al mezzo mobile.
Dopo mezzo secolo dal ’68, ha detto Godard entrando nel cuore del film: “abbiamo ancora bisogno gli uni degli altri. Spero che il film possa servire a far riflettere. C’è una grande riflessione da fare sulla violenza: la questione catalana, la palestinese, la russa. Provo grande compassione”.
Il film di Godard non è un film tradizionale, non ha una trama scritta su una sceneggiatura, non prevede interpreti, è una discussione filosofica e pragmatica, perché per lui: “Ci sono Spielberg e gli altri che pensano a raccontare storie. Il mio film vuole esplorare il presente, e il futuro. Questa è la chiave del cinema, centrale quanto periferica. Il cinema è il mostrare cosa succede intorno ogni giorno, incluso Facebook. Con il montaggio ho cercato di fare un racconto contemporaneo, nel rispetto sia dell’immagine che delle parole, riflesso della locandina stessa del film. In questo senso, i Lumière con L’arrivo del treno… hanno fatto cinema contemporaneo, senza le parole, che sommate al colore, come può essere il modo di usarlo di Cézanne, per me danno l’ensemble perfetto per ‘parlare’, anche senza le parole, senza gli attori. Ci sono interpreti capaci ma ricordando un pensiero filosofico: le democrazie moderne contribuiscono ai totalitarismi, così gli attori moderni contribuiscono al totalitarismo dell’immagine. Io ho avuto il coraggio dell’immaginazione, è l’immaginazione a parlare”.
Pragmatico, delicato, consapevole, emotivo, Godard nel finale de Le livre d’image, voce fuori campo per tutto il racconto, fa sentire che un sentimento non dissimile da quello del ’68 ancora pulsa deciso e questa voce, queste “parole” secondo la concezione godardiana di certo non conformista, danno anche la lettura all’aspetto connesso alla vita dopo il film: sembra la distribuzione voglia diffondere in forma di performance interattiva Le livre d’image. Le colonne di “Variety” parlano di trattative con il Beauborg e il Reina Sofia di Parigi e la National Gallery di Singapore.
Nel team dei selezionatori troviamo l'italiano Paolo Bertolin, già attivo come consulente della Mostra di Venezia, insieme a Anne Delseth, Claire Diao, Valentina Novati e Morgan Pokée.
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