VENEZIA. Verità e finzione si mescolano quando Fabrice Luchini compare nella sala delle conferenze stampa. Sembra di rivedere dal vivo il personaggio di uno dei suoi ultimi film, Molière in bicicletta, un nervoso e istrionico attore di teatro in contesa con un rivale. Dovrebbe parlare del film in concorso di cui è protagonista, L’hermine, diretto da Christian Vincent, nei panni di un temuto e severo presidente di corte d’assise. Preferisce parlare a ruota libera, incontenibile, provocatorio e ovviamente teatrale.
Luchini ricorda le sue origini italiane: il papà Adelmo, se ne andò da Assisi ed emigrò in Francia prima della guerra, “manodopera al servizio del terribile capitalismo”, per poi stabilirsi a Villerupt. “Se si dice che un francese è un italiano arrabbiato, di cattivo umore, allora credo che un italiano sia un francese di buon umore”.
Confessa di non avere più tanta voglia di girare, “ho 64 anni e ho messo dei soldi da parte nonostante le tasse salate e se me lo permette Hollande. Per fortuna c’è chi come Vincent, regista militante, mi chiama ogni tanto sul set“.
In verità sono quasi 80 i titoli di cui è stato interprete, in più di 45 anni di carriera anche se si deve accontentare di un solo César e come attore non protagonista.
Nella commedia L’hermine, dalla sceneggiatura perfetta (forse un premio?), il bravissimo Luchini (Coppa Volpi?) è un magistrato al culmine della sua carriera, arrogante e temuto, in piena crisi coniugale, che si trova a presiedere un processo il cui esito sembra fin dalle prime battute scontato. Intorno a lui, i colleghi, gli imputati e i giurati, un mix sociale eterogeneo, da cui il protagonista si tiene a debita distanza, ligio a regole precise e indiscussi simboli del potere, primo fra tutti quella toga di ermellino indossata.
Insomma Xavier Racine è un giudice poco amato per la sua scontrosità e inflessibilità, ma il destino vuole che tra i giudici popolari compaia una donna da lui desiderata e amata qualche anno prima.
“Un film su un processo? Che strazio uno può pensare, ci annoieremo a morte. E invece – dice Luchini – questo film ci stupisce mostrando persone modeste, del Nord della Francia, schiacciate dalla vita”. Già quel Nord per il quale secondo Luchini in questo momento ci sono interesse e passione da parte del cinema francese. Un po’ meno da parte sua: in quella parte della Francia non fa mai bello, la gente è disperata, un po’ beve, e tanti votano Le Pen”.
Il regista, prima di girare questo film, non aveva mai assistito a un processo, non sapeva nulla del mondo della giustizia. Per Vincent l’aula di un tribunale rappresenta un teatro, un luogo dove tutti si mescolano e stanno sull’attenti e dove si cristallizzano le differenze sociali.
“Nei miei film cerco sempre di parlare della gente del mio paese. In L’hermine i giudici popolari estratti a sorte vengono da tutte le parti della Francia, racconto un po’ le loro vite normali, che poco si vedono al cinema”.
Qualcuno gli domanda come un regista possa lavorare con un attore così impetuoso nei modi e nelle parole, quanti ciak siano necessari. Pochissimi, perché Fabrice limita al minimo l’improvvisazione”, risponde Vincent. E lui subito cancella questa immagine di istrione incontenibile. “Sono un ragazzo super obbediente e per nulla frustrato perché a teatro ogni sera sono al centro della scena”.
A teatro Luchini si sente infatti molto più a suo agio, in quanto padrone della rappresentazione. “Al cinema invece vengo continuamente spostato, ho solo una preoccupazione: essere verosimile. Sul set l’attore è una pasta plasmata dalle mani del regista.
E alla domanda se la sua bravura è dovuta a una particolare tecnica attoriale, Luchini cita una battuta di Woody Allen regista a un’attrice che gli chiedeva insistentemente durante una scena a che cosa dovesse pensare mentre apriva una porta: “Pensa a quanto ti pago”.
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