Day after elettorale e inizio di una settimana di fuoco per il nostro cinema a Cannes. Oggi Almost blue di Alex Infascelli – insieme all’altro serial killer italiano, Roberto Succo – passa alla Semaine, domani Ermanno Olmi e’ in concorso, “contro” The Pledge di Sean Penn.
Ed ecco il cineasta bergamasco sulla Croisette, forte anche di un bell’esordio al botteghino per Il mestiere delle armi, terzo incasso del primo week end. “Una soddisfazione immateriale, perche’ non mi fa diventare certo ricco, ma felice si'”, dice l’autore. E sorride ai tantissimi fotografi che lo chiamano per nome sulla terazza del Padiglione “Cinecitta’ a’ Cannes”. Sul voto, domanda inevitabile per qualsiasi cronista che si rispetti, da’ una replica misuratissima. “Come cittadino, prima che come cineasta, sono felice che il popolo italiano possa esprimere le sue opinioni liberamente e penso che dunque il risultato del voto vada rispettato. Mi amareggia invece il tenore del dibattito, una vera caduta di stile. E la democrazia non ammette cadute di stile”.
Lui, di stile, ne ha da vendere. Ad esempio continua a ripetere di non sentirsi in gara con Moretti, che aspetta semmai alla “maratona di New York, perche’ quella si’ e’ una vera gara”. A Cannes lo sostengono Mikado e Raicinema e lo accompagnano l’attrice Sandra Ceccarelli (Tre storie, Segreti segreti) e il compositore della raffinatissima colonna sonora Fabio Vacchi, che ha scritto le musiche liberamente, “senza neppure guardare il girato e conversando amichevolmente fino a creare una sorta di fratellanza artistica”.
Partiamo dal festival. Ora che e’ qui che effetto le fa?
Il festival e’ bello perche’ da’ un premio ma senza nessuna gara, non c’e’ qualcuno che mette ko qualcun altro. Stare qui e’ come essere invitati a pranzo alla tavola di un principe.
Lei comunque una Palma l’ha gia’ vinta, nel ’78, con “L’albero degli zoccoli”. Che ricordo ha di quel premio?
Non me l’aspettavo, ero tornato tra i miei monti e me ne stavo tranquillo. All’improvviso mi chiamano e mi dicono di tornare in fretta. Mi preoccupo come una ragazzina: cosa mi metto, cosa non mi metto… Faccio tutto il viaggio da Asiago, in macchina… e quando arrivo, c’e’ Marco Ferreri ad aspettarmi. Anche lui era in concorso, ma non si sentiva sconfitto, anzi mi dice “beviamoci una cosa insieme”. Ecco, questo ricordo affievolisce tutto il resto: e’ la nobilta’ di un grande regista non sempre apprezzato come meritava dai palmares ma capace di non dare nessun peso ai premi.
Il suo film e quello di Moretti affrontano un po’ lo stesso tema, la morte, come del resto molte altre opere di questo festival. C’e’ un legame sotterraneo tra gli autori?
Non si sa da dove venga questo interesse per la morte. Ma la riflessione che mi viene di fare e’ che la morte, suprema giustizia che colpisce tutti allo stesso modo, e’ l’unica interlocutrice capace di farci comprendere quanto la nostra vita sia importante e di costringerci a fare una gerarchia dei valori. Nella vita ci vuole piu’ serieta’ e la morte ce la impone.
Nel “Mestiere delle armi” ha fatto una scelta di cast rigorosissima e non convenzionale, come spesso nel suo cinema.
Ho sempre combattuto per scegliere liberamente gli attori e, salvo in paio di casi in cui avevo bisogno di un personaggio noto per fare diciamo da “mediatore”, sono affezionato agli attori che non appartengono allo star system. Io scelgo le persone guardandole negli occhi. Niente puo’ nascondere la verita’ di uno sguardo.
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