TORINO – “Ho conosciuto Antonioni, ho incontrato Vittorio De Sica e Alberto Sordi… Ma soprattutto ho un magnifico ricordo di Monica Vitti, una grande star che mi ha diretto nel suo film da regista Scandalo segreto. Ne parlo al presente anche se so che adesso soffre di una malattia grave e ha perso la memoria”. Elliott Gould è al Festival di Torino per la retrospettiva sul cinema americano degli anni ’70, un cinema mitico che rivoluzionò la visione e il racconto e che oggi è amato da ragazzi giovanissimi che all’epoca non erano neanche nati. E il 75enne Gould stupisce tutti mandando un pensiero affettuoso alla nostra grande attrice che ha incontrato tanti anni fa. Ma naturalmente il nome che ricorre continuamente nei suoi ricordi è quello di Robert Altman, il regista che l’ha scoperto con M*A*S*H* (era il 1970 e l’allora 32enne aveva appena iniziato a fare a l’attore) e che l’ha poi diretto in California Split, Il lungo addio e Nashville).
Partiamo da M*A*S*H*. È vero che avrebbe dovuto interpretare un altro ruolo, quello di Duke?
E’ vero. Robert Altman mi fece leggere la sceneggiatura di M*A*S*H* che era tratta dal romanzo di Richard Hooker e poi ci incontrammo. Mi parlò del ruolo di Duke, quello che poi fece Tom Skerritt, e io non volevo mettere minimamente in dubbio la scelta che aveva fatto. Ma quel personaggio era un po’ succube e io non mi ci sentivo portato, allora proposi che se non aveva ancora scelto l’attore per il personaggio di John, io mi sentivo di avere la sua energia, il suo spirito. Fu così che diventai John.
Come si trovava a lavorare nel caos fertile tipico dei set di Altman?
Ricordo che Bob mi chiese di andare a pranzo con Donald Sutherland, il terzo protagonista di M*A*S*H*, lui e io da soli. All’inizio non ci piacevamo, poi la chimica è partita e lavorando insieme siamo diventati molto uniti e questo clima si è creato anche con tutti gli altri attori, con Robert Duvall, eccetera. Io e Donald avevamo poca esperienza all’epoca, io avevo girato solo tre film, tra cui quello con Paul Mazurski, che era anche lui esordiente, Bob & Carol & Ted & Alice, quindi con Altman dovevo imparare molte cose. Però ricordo che all’inizio Donald e io ci lamentammo, perché non capivamo bene cosa volesse da noi, ma lui si è dimostrato flessibile verso la nostra inesperienza. Insomma, alla fine è stata un’esperienza fantastica.
Lei ha rifiutato il ruolo di McCabe ne “I compari” ma poi è tornato a lavorare con Altman ne “Il lungo addio”, dove era Marlowe. E pare che Altman abbia detto che lei era l’unico Marlowe possibile.
È tutto vero. McCabe non ho potuto farlo perché purtroppo ero impegnato in un altro film con la Universal. Poi Bob mi ha chiamato al telefono e mi ha proposto Il lungo addio. E quando gli ho detto che avevo sempre sognato di fare Marlowe, lui mi ha risposto: Ma tu sei Marlowe!
La New Hollywood era un periodo di grande libertà creativa fuori dagli schemi. Cosa è rimasto oggi di quel periodo?
Non faccio mai paragoni. Cerco sempre di lavorare nelle condizioni date. Mentre giravo Ocean’s eleven, una notte che eravamo ancora sul set all’una passata, Steven Soderbergh mi ha chiesto di parlargli di una scena di improvvisazione che avevo fatto nel Lungo addio, quella in cui mi imbrattavo tutta la faccia con l’inchiostro. Io dovevo girare con Matt Damon di lì a poco ed ero stanco, non mi piace essere stanco perché mi sento come un animale nella giungla che può essere attaccato e sbranato da un momento all’altro. Ma lui mi chiede di Altman e io gli dico: quella scena dimostra semplicemente la fiducia che aveva in me, voleva dire che ero parte della squadra, perché nei film la questione del tempo è fondamentale. Il tempo è denaro e non si può sprecare il tempo. Ma se un regista si fida di te, ti lascia fare. Ingmar Bergman con cui ho lavorato dopo M*A*S*H* in L’adultera, mi ha detto una volta: “i tuoi occhi sono chiusi, devi aprirli, perché nei tuoi occhi vedo quello che metto in te. Io ti guiderò e non ti porterò mai fuori strada. Il suo era un approccio totalmente diverso, Altman invece mi ha dato tantissima libertà e io me la sono presa.
Pensa che Soderbergh abbia qualcosa di quella libertà creativa tipica degli anni ’70?
Sarei stato molto soddisfatto se Sesso, bugie e videotape fosse stato il mio primo film. Ricordo il primo incontro con lui. A me piace arrivare in anticipo, come mi ha insegnato Bergman, ma quella volta arrivai semplicemente in orario e lui era lì prima di me. A un certo punto gli chiesi se il suo nome, Soderbergh, fosse ebraico. Lui risposte: No, sono svedese. E io: ma svedese è una nazionalità, mentre ebreo è un modo di essere. E lui disse ancora: No, sono svedese. Pensavo di essermi fregato con le mie mani, che non mi avrebbe più dato la parte. Ma non fu così.
Lei non ama i confronti, ma le va di fare un paragone tra l’epoca d’oro del cinema americano e l’oggi?
Ora l’industria è controllata dalle multinazionali, molto più che allora e ci sono tanti media. Quindi è più difficile innovare, creare qualcosa di nuovo. Ma credo che sia sempre possibile fare qualcosa di non convenzionale, andare controcorrente. Il cinema deve innovare per lasciar emergere la nostra vita. Tra i registi di oggi mi piace Alexander Payne.
Cosa ricorda del set con Dino Risi per “Tolgo il disturbo”?
Risi mi scelse per fare l’amico del protagonista Vittorio Gassman, Alcide, un ex compagno di manicomio. Conoscevo Gassman perché aveva lavorato con Altman e per via di Shelley Winters, sapevo che era un attore classico, che giocava bene a pallacanestro. Apprezzo molto il grande cinema italiano, la cultura e l’arte italiane.
Ha mai pensato di fare il regista?
Il mestiere d’attore è un bel mestiere, mi dà da vivere e mi permette di aiutare la mia famiglia e i miei nipoti, spero di farlo ancora. Credo invece di non essere portato a fare il regista, non ci ho mai neppure pensato, non ho un bel rapporto con lo show business, cosa che credo sia necessaria per fare quel lavoro.
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