TORINO – Come la gente del delta del Po, i pescatori, le badanti straniere di Colpa di comunismo, i tanti volti che fanno parte dell’immaginario di Elisabetta Sgarbi, anche le facce di Girolamo Romani detto il Romanino raccontano un’umanità autentica, popolare, per certi versi dissacrante pur all’interno di un’arte sacra. Quindi l’incontro tra l’autrice e questo pittore da alcuni considerato ‘sporco’ era inevitabile. Lei stessa definisce “un film ininterrotto, che mi segue da anni” La lingua dei furfanti che ha portato in anteprima nella sezione Festa Mobile del Torino Film Festival. Un lavoro di ricerca che entra in risonanza con gli affreschi del Romanino in Val Camonica attraverso i testi di Luca Doninelli letti da Toni Servillo, mentre le musiche sono di Franco Battiato. Tutti fedeli collaboratori della editrice e filmmaker.
Il film, in 32 minuti, ci trasporta nelle montagne in provincia di Brescia, a Pisogne, Breno e Bienno. Qui si trovano i cicli pittorici: opere di argomento sacro e scene bibliche, realizzate tra il 1532 e il 1541, su commissione dei monaci agostiniani, per pochi denari ma in piena libertà. Tanto che vi emergono prepotentemente, al di là dei temi canonici, le fisicità della gente del luogo che il pittore osava ritrarre nella loro verità anche scurrile. Scriveva di lui lo storico e critico letterario Giovanni Testori: “A Pisogne, a Breno, a Bienno Romanino tira a far ‘cagnara’, non v’ha dubbio alcuno. Egli sembra costringere i suoi personaggi a venire sulla scena a furia di calci nel sedere; e non è meraviglia che, una volta lì, essi, tra impetuosa incapacità a organizzarsi, in lingua e vergogna, finiscano col gonfiar tutto; a cominciare dalle loro stesse membra per finire alle parole che ruttan fuori quasi nubi di fumetti odoranti d’osteria, e alle piume dei cappellacci, che si rizzano, unte e bisunte, come quelli di tacchini incazzati.”
La regista confessa la cifra personale di questo lavoro: “Mi sembra una strana biografia familiare, un mio nascosto romanzo di formazione, che ho condiviso con un altro amico e compagno di avventure, Giovanni Reale. E’ stato un mio viaggio nell’arte e anche nei luoghi cari di mio zio Bruno, fratello di mia madre, un modo di tornare in quei posti attraversati da storie di dolore, come la recente scomparsa di mia madre, per raccontare volti e paesaggi dell’anima”. A Torino Elisabetta Sgarbi è accompagnata dai due direttori della fotografia, Elio Bisignani e Andres Arce Maldonado, che si sono alternati alla macchina da presa lavorando con luci naturali, a volte anche con fiaccole per rendere il calore e la fisicità dei dipinti. Inoltre è con lei il coautore Eugenio Lio.
Da dove viene l’espressione “la lingua dei furfanti”?
E’ di Teofilo Folengo, che sporcava la lingua italiana con un preciso intento ideologico così come la pittura tellurica di Romanino si discostava da quella di Tiziano.
Cosa la affascina in queste opere?
Romanino ha un tratto libero e rivoluzionario. L’ho scoperto da tempo, grazie a mio zio Bruno, a mia madre, a mio fratello Vittorio. E nei miei film d’arte me ne sono già occupata. Nel mio film L’ultima salita mi sono imbattuta nella Crocifissione di Pisogne. In Romanino ho ritrovato la gente del luogo, secondo Testori quegli affreschi sono la Cappella Sistina dei poveri, perché dentro c’è un mondo che pulsa. E’ un tratto libero, quasi caricaturale che lo rese rivoluzionario rispetto alla pittura del Cinquecento.
La voce di Toni Servillo è fondamentale all’opera, sembra quasi portarci dentro le scene, risucchiare lo spettatore all’interno delle immagini.
Collaboro con Servillo da ben prima che diventasse così noto grazie ai suoi film con Sorrentino. Nel 2004 abbiamo girato insieme Notte senza fine. Ho un rapporto con lui lunghissimo e so quanto ami l’arte antica. Spesso dialoghiamo di passioni comuni e anche di artisti contemporanei. Mi ha sempre seguito con fedeltà sorprendente nei miei vari interessi. Altri miei film hanno la sua voce, posso dire che è l’anima dei miei film.
Si considera affine a Romanino come cineasta che non si adegua alle forme espressive più consuete?
Percorro una forma artigianale alta, nel mio cinema non c’è un solo effetto realizzato in post produzione. Il fuoco, la pioggia, gli elementi naturali sono tutti presenti, materici. E poi mi diverto a rallentare il ritmo fino a stremare lo spettatore. Se capisce che in quel movimento c’è una lenta scoperta, magari mi segue. Altrimenti no. Ma non desidero strizzare l’occhio al pubblico.
Tremila spettatori in più per questa edizione, che si aggiungono ai 75mila della precedente edizione e indicano che il Torino Film Festival è una realtà consolidata per tutti gli amanti del cinema
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